Roma, 19 luglio 2024 – Professor Alessandro Campi, storico delle dottrine politiche dell’università di Perugia, che Europa prefigura la maggioranza parlamentare per Ursula von der Leyen allargata ai Verdi?
"Sicuramente le forze politiche tradizionali (Ppe, Pse e liberali, ndr ) si sono un po’ arroccate a difesa, percependo l’avanzata delle destre come minaccia alla loro sopravvivenza e non come segnale degli elettori. Anche se dietro queste forze ci sono degli elettori che esprimono istanze che meritavano maggiore attenzione. Il tempo dirà se sia stata una scelta miope oppure se quell’intransigenza sia l’unica strada che può salvare l’Europa dal rischio di autodistruzione, per usare le parole della stessa von der Leyen".
Socialisti e Verdi hanno dato il sangue per un programma molto securitario e bellicista. Ha prevalso la logica del cordone sanitario?
"Si trattava di mettere fuori gioco le destre. Si sono turati il naso e hanno votato. Sa molto di usato sicuro, di scelta dettata dalla paura della destra, dalla paura di Trump, dai malesseri interni in Francia, dove Macron preferiva Draghi, e Germania. Si è preferito convergere. Non è un segnale forte. Si fosse voluto blindare la maggioranza e mandare un segnale di cambiamento, forse meritava affidarsi a una figura nuova e diversa".
L’esclusione delle destre potrebbe alimentare ed esaltare un loro processo di unificazione?
"Tutt’altro. Non solo rimangono differenze anche molto grandi, ma quello che è accaduto dipende dal fatto che nessuna destra vuole lasciare all’altra il monopolio di un’intera area. Per dirla all’italiana, c’è stata la premura di non passare per inciucisti coi poteri forti. Non mi sembra tuttavia che Meloni abbia interesse, voglia e convenienza di mettersi a capo di un fronte che in primo luogo non è unitario per definizione e poi presenta differenze sia politiche che culturali molto marcate".
I franchi tiratori non sono mancati. L’allargamento ai Verdi rischia di risultare subito controverso, date le riserve moderate sul Green deal?
"Ieri serviva una maggioranza. La candidata si è mossa con un cinismo e un tatticismo strepitosi. Le interessava essere rieletta e disinnescare fuoco amico. Perciò nel suo intervento è stata molto ecumenica e vaga. Già sul Green deal bisognerà vedere quanto andranno andranno d’accordo Verdi e Ppe. O che tipo di accordi potranno fare, persino coi socialisti, sull’Ucraina e il potenziamento delle spese e le capacità produttive militarti. Penso ci saranno maggioranze nuove e diverse. Ciò significa che le partite decisive si giocheranno dopo la nomina dei commissari. Una fase nuova dove l’Italia potrà cercare di rientrare in gioco".
Il rilievo dato al negoziato sulle deleghe è stato un errore da parte del governo Meloni?
"È stata una falsa questione. All’Italia tocca per definizione un commissario importante com’è stato Gentiloni".
E allora cosa ha spiazzato la premier?
"C’è stata una partita tutta interna alla destra. Mi riferisco alla nascita del gruppo dei Patrioti e il riposizionamento di alcune forze come Vox. Questo non era stato previsto all’indomani del voto da cui Meloni era uscita unica premier rafforzata. Lei aveva immaginato di poter capitalizzare al meglio questo risultato, muovendosi in modo anche un po’ ambiguo tra appartenenza politica e ruolo istituzionale, cosa che ha creato confusione".
Il voto contrario a von der Leyen può creare difficoltà alla destra meloniana sia rispetto ai popolari che alle destre sovraniste?
"Alla fine credo abbia prevalso il calcolo politico. Hanno capito che il voto sarebbe stato numericamente irrilevante e che si sarebbero esposti alle accuse di incoerenza e tradimento, anche da parte di Salvini. Certo, rimanere all’opposizione qualche problema lo crea a una destra di governo che ora si vede riassorbita sul piano dell’immagine accanto a Orban e Le Pen. Dopodiché in quel voto c’è anche una scommessa sul futuro. Se verrà eletto Trump, Meloni non si potrà far spiazzare nei rapporti col prossimo inquilino della Casa Bianca".