Martedì 16 Luglio 2024
COSIMO ROSSI
Politica

Europee e Regionali, tensioni in maggioranza: anche Tajani non si candida, Meloni è ancora indecisa. Stallo sui governatori

La premier vorrebbe testare il consenso degli italiani, ma non vuole penalizzare gli alleati. Se non dovesse presentarsi per Bruxelles, potrebbe ottenere qualcosa in più nelle sfide locali

Roma, 10 gennaio 2024 – Sfumano le candidature alle Europee, effimere com’eran balenate. Dopo il perentorio "non mi candido" pronunciato l’altra sera in tv dal vicepremier leghista Matteo Salvini, anche dall’entourage dell’altro vice azzurro Antonio Tajani fanno sapere che non si candiderà. "O tutti o nessuno", aveva del resto sancito nei giorni scorsi il leader di Forza Italia, prima ancora che il collega leghista annunciasse il passo indietro.

I due vicepremier: Antonio Tajani (a sinistra), 70 anni, e Matteo Salvini, 50 anni
I due vicepremier: Antonio Tajani (a sinistra), 70 anni, e Matteo Salvini, 50 anni

La premier Giorgia Meloni, che aveva ventilato l’ipotesi di candidarsi con il corollario, magari, di ispirare gli altri leader, deciderà solo nell’imminenza della presentazione delle candidature. Se dovesse correre, rischierebbe di mortificare gli alleati e compromettere la stabilità del governo nel caso, probabile oltre che plausibile, in cui triplichi o quadruplichi il loro risultato, attestandosi alle soglie di quel 30% che 5 anni fa era leghista e fino a 15 anni fa rappresentava il perimetro azzurro.

Tanto Salvini come Tajani si fanno forti di anteporre alla prossima campagna elettorale per l’Europa gli improrogabili impegni di governo. Argomentazione non peregrina. Insieme al fatto che comunque scatterebbe l’incompatibilità tra il seggio a Roma e quello a Bruxelles. Un argomento che comincia a farsi sempre più strada anche nel Pd, visto che l’opa di Meloni sul voto europeo e il duello con Elly Schlein tra l’altro danneggerebbe le altre candidature femminili, stante l’obbligo di preferenze di genere alternate.

Certo, la propensione della premier al suffragio è forte. Ma anche la premura per gli alleati. Tanto più in un frangente tutt’altro che semplice a livello locale, dove le tensioni sulle candidature nel voto amministrativo si ripercuotono sull’esecutivo. A cominciare dalla Sardegna, teatro di un ostinato braccio di ferro tra la Lega, che sostiene l’uscente Christian Solinas in nome della conferma di tutti gli amministratori uscenti, e Fratelli d’Italia, che ha invece persuaso il resto della coalizione a convergere sul sindaco di Cagliari Paolo Truzzu. Un braccio di ferro quasi senza sbocchi. Truzzu dichiara di sentirsi candidato. Nonostante Salvini si fosse rimesso al territorio, invece, la Lega ribadisce in una nota l’intenzione a non fare "nessun passo indietro" sul governatore uscente Solinas.

Nell’isola già sono in lizza due candidati per il centrosinistra: la 5 Stelle Alessandra Todde insieme al Pd e l’ex patron Tiscali e governatore Renato Soru con un’alleanza che va da Azione a Rifondazione comunista. E anche il braccio di ferro nel centrodestra rischia di congelarsi su due candidature. A maggior vantaggio del Carroccio, probabilmente. In quanto, a prescindere dal risultato, almeno in Sardegna potrebbe dimostrarsi in grado di dar filo da torcere al partito della premier e il suo candidato. Per di più in nome di una candidatura autonomista.

Non è detto che basti, ma il ritiro della candidatura Meloni dal tavolo europeo potrebbe risultar utile anche ad appianare le contese locali e soprattutto regionali: dove FdI chiede maggiore visibilità, facendo presente di esser sotto-rappresentata rispetto al proprio peso reale, potendo annoverare come candidato solo il governatore uscente dell’Abruzzo Marco Marsilio. Gli azzurri si son mostrati disponibili in Sardegna. Ma la Lega tiene duro sulle riconferme in pacchetto di tutti gli uscenti.

Il partito di Salvini spasima però di recuperare consensi in Europa, dove in realtà il Carroccio lavora alacremente nell’interesse delle proprie regioni di riferimento, per contrastare il drastico ridimensionamento della delegazione dei 28 eletti nel 2019. Un segno di pace da parte della premier sarebbe quindi apprezzato e forse utile anche ad appianare i dissidi locali. Assediato dai cronisti, il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida minimizza dunque le tensioni: "Giorgia ha solo proposto un confronto su questo – dichiara –, ma non è mica obbligatorio".