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Zelensky umiliato da Trump nello Studio Ovale
Sono caduti gli alibi, le riserve, le prudenze, la comprensibile attenzione con cui l’Europa, l’Italia, noi tutti abbiamo guardato finora al presidente Trump: pensieri, parole, opere e omissioni di un uomo che, nell’ultima settimana, è riuscito a scardinare ogni principio con cui il cosiddetto Blocco Occidentale aveva forgiato la diplomazia e il linguaggio del suo approccio al mondo. Un approccio spesso controverso, non c’è dubbio. Privo di ambiguità? Tutt’altro. Talvolta spregiudicato, ipocrita o ingiusto? Anche. Ma sorretto da un’etica di fondo che per molto tempo ci ha preservato da derive che oggi sembrano davvero a un passo da noi. Il mondo si infiamma, e lo fa a una velocità travolgente.
Lo fa, soprattutto, sulla scorta delle mosse più o meno dirompenti che il presidente Usa sta usando nei confronti di alleati ed ex alleati, di amici e nemici. È solo un giocatore d’azzardo, un businessman con pochi scrupoli, come è stato detto finora da molti analisti italiani e internazionali? Alza la voce per trattare con più facilità ai tavoli degli affari e delle guerre? Difficile, ormai, limitarsi a questi giudizi.
Prima il video su Gaza, che al pessimo gusto univa una inaccettabile disinvoltura verso qualunque forma di comprensione politica, di pietà umana, di rispetto civile. Fa ridere? Non fa ridere. Qualcosa non dissimile, nell’impressione di fondo, è accaduta venerdì con il trattamento riservato nello Studio Ovale al presidente ucraino Zelensky: umiliato, deriso, minacciato. Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare un’America così. Alla fine, e più di ogni altra cosa, a essere stato umiliato – tanto nel video su Gaza quanto nell’aggressione a Zelensky – è proprio il sogno americano, è lo spirito con cui l’Occidente ha guardato per ottant’anni a una terra e a dei valori che volevano incarnare il faro culturale, militare e politico del mondo libero.
Ora, le domande più urgenti sono due. La prima: dove sono finiti gli anticorpi dell’America democratica? L’opinione pubblica, anche quella non trumpiana, sembra anestetizzata, appiattita, sopraffatta, stanca. Incapace di far sentire la propria voce con un minimo di forza, o di dignità. Un fiero Repubblicano come Ronald Reagan, conscio della fragilità dell’ordine liberale, ammoniva che "la libertà non è mai a più di una generazione dall’estinzione".
La seconda domanda: cosa può fare l’Europa? Di certo, non possiamo accettare la narrazione di chi la accusa di immobilismo o bellicismo. Sin dall’inizio del conflitto, l’Ue, pur tra limiti ed errori, ha cercato soluzioni diplomatiche, ha imposto sanzioni alla Russia, ha ridotto la dipendenza dal gas di Mosca e ha fornito supporto militare all’Ucraina, evitando il collasso di Kiev. Questa strategia non è stata un fallimento, ma una scelta obbligata per fermare l’aggressione russa senza cedere al ricatto della resa. Ora, se l’Europa vuole essere un attore di pace, deve diventare una potenza politica, militare e diplomatica. Il processo di adesione dell’Ucraina all’Ue deve accelerare, mentre la difesa comune europea non può più essere un’idea astratta. Se il futuro della sicurezza del continente viene deciso a Washington o, peggio, a Mosca, significa che l’Europa ha perso la sua centralità. La riunione convocata da Keir Starmer a Londra sarà un primo banco di prova: o l’Europa sceglie di diventare protagonista del proprio destino, oppure continuerà a subire la legge del più forte, oggi con l’Ucraina. Domani, chissà.