Può bastare. Mario Draghi è pronto a chiudersi dietro le spalle il portone di Palazzo Chigi, non senza aver prima detto come la pensa. E ce n’è per tutti e vola qualche sganassone. Calenda e Renzi, che sulla sua candidatura virtuale e non autorizzata hanno imbastito l’intera campagna elettorale, li liquida con una sola sillaba, la risposta a chi gli chiede se sarebbe disposto ad accettare un secondo mandato: "No". Per il terzo polo un guaio gigante. Stavolta il premier è furibondo, non per le solite relazioni pericolose con Putin, che stigmatizza: "C’è chi la sera parla di nascosto con i russi, va bene, ma ci sono tanti che non lo fanno e sono la maggioranza". E comunque "ieri ho sentito il segretario di Stato americano Antony Blinken che mi ha confermato l’assenza di forze politiche italiane tra i destinatari dei fondi russi". Washington procederà a ulteriori verifiche, ma anche "i contatti tra le intelligence per ora ribadiscono quanto da lui detto". In ogni caso, "la democrazia italiana è forte, non si fa battere dai nemici esterni, dai loro pupazzi prezzolati".
A mandarlo fuori dai gangheri è la delega fiscale: "C’era un accordo con tutti per votarla il 7 settembre in cambio del nostro impegno a non varare i decreti delegati prima delle elezioni. Noi abbiamo mantenuto la parola, una forza politica invece no". A Salvini & co. fischiano le orecchie. Qui, però Draghi non si è ancora arreso non per una questione di principio, ma perché il suo modus operandi è noto: inserire il pilota automatico, tracciando un percorso che chiunque gli succeda debba poi giocoforza seguire. Perciò la rinuncia alla delega fiscale è più che dolorosa: annuncia di aver parlato con la presidente del Senato, Casellati, che tenterà di mettere in agenda in extremis il provvedimento in conferenza dei capigruppo. Di fronte a eventuali dissensi, sottoporrà il calendario al voto dell’aula. È una porta stretta, non solo perché una legge delega approvata a poche ore da nuove elezioni è comunque una forzatura, ma anche perché in cambio FdI e Lega pretendono l’equo compenso, M5s l’ergastolo ostativo: un ’programma di governo’ a urne quasi aperte è fuori discussione.
Lui comunque ci prova. Gli scappellotti sul caso Orban (FdI - oltre al Carroccio - non ha votato la risoluzione del Parlamento europeo che bolla l’Ungheria come Paese non democratico) non mancano, ma il premier si scosta un po’ dal coro: "Si scelgono le alleanze sulla base di una comunanza ideologica, ma anche sulla base della tutela degli interessi degli italiani. Chi conviene avere di più come alleato?". Insomma, una via di mezzo fra un consiglio e un rimbrotto a Giorgia Meloni. Tra Bruxelles e Budapest non si possono avere dubbi sul partner con cui conviene schierarsi per questione se non di valori almeno di convenienza spiccia.
A Conte, senza nominarlo, Draghi ricorda la campagna contro le armi all’Ucraina: difficile infatti equivocare a chi alluda quando denuncia chi "oggi si inorgoglisce per la controffensiva ucraina, e come pensava che si difendessero gli ucraini, a mani nude?". Netto anche il colpo a Salvini sulle sanzioni: "Funzionano". Nessuno gli offre il destro per togliersi un sassolino, anzi una pietra dalla scarpa, ma il premier provvede da solo chiedendo al ministro Franco di spiegare con esaustivi dettagli perché le accuse rivolte al progetto Amco siano destituite di qualsivoglia fondamento. Capita che quelle critiche non provenissero da una fonte come tante ma dal candidato FdI ed ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Insieme alle critiche, non mancano gli elogi: copiosi, quasi smodati. Soprattutto per i suoi ministri, quelli tecnici, naturalmente, a partire dai due seduti al suo fianco: Franco e Cingolani. Quindi all’intero suo governo e il suo metodo: "Abbiamo trovato 31 miliardi per gli aiuti senza scostamento".
Rivendica il pieno successo della sua esperienza, e anzi quando qualcuno gli squaderna i problemi che attendono al varco il Paese non reprime uno sbotto di irritazione: "Non condivido questa visione sempre negativa, come quando si dice che il Pnrr non funziona. Invece funziona: c’è poco da rivedere. Quello che vedo io è un Paese forte, leale con la Nato e con l’Europa, che quest’anno cresce del 3,5% dopo un 6% l’anno scorso e che sta riducendo il debito pubblico". Le parole alate che Draghi dispensa oltre a quelle per il suo governo per il Paese: i problemi ci sono, ma sopravvalutarli sarebbe un errore esiziale. Anche sul fronte economico. "Se tutto il mondo va in recessione ci andiamo anche noi, ma l’importante è a fare un po’ meglio degli altri". Cingolani dà manforte alla sferzata di ottimismo: ritiene probabile che il 30 settembre la Ue varerà il price cap sul gas e che il rigassificatore di Piombino si farà.
È probabile che prima di fare le valigie Mario Draghi incontrerà di nuovo i giornalisti, ma la conferenza stampa dell’addio è stata quella di ieri. Addio al governo, almeno, perché su questo il premier uscente non ha lasciato dubbi. Ma di incarichi eminenti in Italia e Europa ce ne sono molti, e non è affatto detto che Draghi intenda scegliere il ritiro.