Il Meeting di Rimini ha messo in evidenza due elementi importanti. Il primo è che ci possono essere luoghi per un confronto civile tra leader di schieramenti opposti, senza presentare la competizione politica come una lotta di civiltà o peggio una questione di sopravvivenza della democrazia. In una repubblica sana ci sono i luoghi del conflitto – le elezioni, le arene televisive, i social network – e i luoghi del dialogo. Se mancano questi ultimi si rovina nel caos, mentre se mancano i primi si degenera verso l’oligarchia. Il secondo elemento di rilievo è il definitivo passaggio di Mario Draghi da premier uscente a grande riserva della Repubblica. Il discorso del Presidente del Consiglio è al solito ricco di riferimenti economici e richiami storici, ma soprattutto appare una mano tesa a chi arriverà al governo dopo di lui.
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Draghi ha mostrato subito di voler normalizzare l’esito delle elezioni, anche se questo dovesse portare al governo forze nuove, "chiunque avrà il privilegio di guidare il Paese saprà preservare lo spirito repubblicano che ha animato dall’inizio il nostro esecutivo. Sono convinto che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili. L’Italia ce la farà anche questa volta". Senza drammi e con prudenza Draghi segnala che l’Italia avrà un governo degno in ogni caso, pure senza la coalizione di unità nazionale. Il Presidente del Consiglio ha poi perseguito con una "operazione verità" sulla situazione economica: l’inflazione, la crisi energetica, i progressi fatti dall’esecutivo nella diversificazione delle forniture. E ancora la ripresa dell’economia dopo la pandemia e i fondamentali economici solidi dell’Italia grazie alle politiche pubbliche approntate e all’attuazione del Next Generation EU.
Ma forse la parte più incisiva del discorso di Draghi è quella sul posizionamento internazionale dell’Italia, una dichiarazione che suona più come un testamento politico che come un commiato: "Dalle illusioni autarchiche del secolo scorso alle pulsioni sovraniste che anche recentemente spingevano a lasciare l’euro, l’Italia non è mai stata forte quando ha deciso di fare da sola. Il posto dell’Italia è al centro dell’Unione europea, è ancorato al Patto Atlantico, ai valori di democrazia, libertà, progresso sociale e civile che sono la storia della nostra Repubblica". L’Italia – ha chiosato – "ha bisogno di un’Europa forte tanto quanto l’Europa ha bisogno di un’Italia forte". Chi crede che con la fine dell’incarico da capo del governo l’influenza di Mario Draghi cesserà, sbaglia. La rete del Presidente del Consiglio uscente è vasta, il suo peso in Europa resta rilevante, il suo prestigio internazionale intatto, e tutti sanno che il suo governo è caduto per le convenienze dei partiti e non per gli errori di chi lo guidava.
Mario Draghi può ancora dare molto al Paese, sia indirettamente che direttamente, e con un cursus honorum di così alto profilo egli non ha bisogno di un incarico formale per farlo. Le sue parole pubbliche e private possono indirizzare, aiutare, consigliare oppure allertare chi siede nelle stanze di Bruxelles, Francoforte, Washington e Wall Street. Chi prenderà il suo posto farà bene ad accettare quella mano tesa offerta dalla migliore riserva della Repubblica. Per il bene dell’Italia è meglio governare con l’aiuto di Draghi che senza.