Roma, 28 settembre 2018 - Al bivio, Giovanni Tria sceglie di non sacrificare la stabilità sull’altare del 2,4%: «Non mi dimetto per il bene della nazione. Getterei l’Italia nel caos». Ciò non vuol dire che l’esecutivo sia al riparo dalle intemperie e che la nave giallo-verde procederà senza sussulti: all’orizzonte si stagliano due ostacoli enormi. La reazione dei mercati e quell’Europa. È ciò che il ministro dell’Economia paventava e voleva a tutti i costi evitare puntando su un ‘numerino’ più basso: niente da fare. La resa arriva al termine di una giornata lunghissima, forse la più lunga da quando si è insediato al ministero di Via XX settembre: un braccio di ferro estenuante con Salvini e Di Maio che – malgrado il tentativo di mediazione sul 2,1% – l’ha visto soccombere. Dopo una telefonata con il Colle, nella quale il Quirinale ha sottolineato come una crisi sarebbe la cosa più pericolosa di tutte, esclude le dimissioni. E in tarda serata anche Conte chiamerà Mattarella.
Intesa sul deficit al 2.4 per tre anni
In realtà l’ombra delle dimissioni era stata dissipata fin dal mattino, quando lui stesso aveva escluso di poter mollare gli ormeggi. Tutte le simulazioni sullo spread circolate nel triangolo istituzionale erano più chiare di qualsiasi discorso: pericoloso il 2,4, esiziali per l’Italia le dimissioni. Dunque Tria si è presentato alla trattativa con i leader di maggioranza con un’arma spuntata. L’unica remota possibilità di evitare la disfatta era provare a dividere la maggioranza, ed è quello che il ministro ha tentato inutilmente di fare per tutto il pomeriggio, offrendo a Di Maio tutti i dieci miliardi richiesti dal pentastellato per il reddito di cittadinanza ma al prezzo di una revisione quasi solo di facciata della legge Fornero.
Ufficialmente era solo questione di cifre e di bilancio, in realtà è difficile non sospettare che sulla sterzata di Tria contro la riforma della riforma delle pensioni non pesasse anche l’assoluta ostilità in materia della commissione europea e soprattutto della Bce, che ancora ieri nel suo bollettino mensile ha tra le righe esplicitato il suo niet. Lo stesso Quirinale – nel tentativo di trovare una via d’uscita – consigliava di fare concessioni in termini quantitativi e qualitativi a un M5S in difficoltà per la necessità di recuperare consenso, accettando di devolvere il grosso dei fondi per la spesa corrente invece che per gli investimenti, come aveva chiesto più volte nelle ultime settimane il ministro Tria. Insistendo tutt’al più per rinviare di alcuni mesi, fino all’estate, la partenza del reddito di cittadinanza.
La speranza tanto di Tria quanto del Colle era che Salvini, godendo già di un’ampia rendita di posizione per la campagna sull’immigrazione – in una condizione dunque più facile degli alleati – si mostrasse più malleabile. Così non è stato anche perché il leader della Lega si era spinto troppo oltre: ragion per cui si è rivelato impossibile rompere l’asse tra i due vicepremier rilanciata dopo pranzo nel corso di una riunione cui non ha partecipato Tria. Mercoledì sera il leader della Lega, malgrado il parere contrario della ‘colomba’ Giorgetti si era schierato al fianco di Luigi, permettendogli di venir fuori dall’isolamento. Era quasi inevitabile che il pentastellato ricambiasse il favore mettendo Tria con le spalle al muro. I due leader hanno certamente vinto una battaglia ma la guerra vera e propria comincia solo ora. Molto dipenderà dall’evoluzione dello spread ma ancora di più dal braccio di ferro con un’Europa che fin qui ha fatto il possibile per non scendere direttamente in campo in prossimità delle elezioni, ma che a questo punto quando la manovra vera e propria sarà presentato sarà costretta a prendere una decisione. Al momento la procedura d’infrazione sembra quasi un passaggio obbligato ma i governanti giallo-verdi sono certi di poterla reggere.