È la cosa che gli riesce meglio. Secondo i suoi estimatori. È la sola cosa che gli riesce. Secondo i critici. La "cosa" è il muoversi ai tavoli internazionali da trattativista incallito: scaltro, suadente e duro. Come se avesse frequentato a lungo l’Ena di Parigi o si fosse sempre aggirato nelle retrovie dei palazzi di Bruxelles e delle altre capitali. Certo è che in una stagione di nani politici e di fuochi fatui, Giuseppe Conte, l’ormai ex "avvocato del popolo", in poco più di due anni si è rivelato l’ultimo "capitano di ventura" della politica italiana: gentile e abile, ma cinico e spietato quanto basta per disarcionare "amici", rivali e avversari. Soprattutto grazie alla capacità di spendere in casa i risultati ottenuti all’estero.
Il "premier per caso" non ha agito "a caso" negli oltre 24 mesi che lo separano da quel lontanissimo 23 maggio del 2018 quando sedette nel salottino presidenziale del Quirinale ammesso all’esame del Capo dello Stato, prima di affacciarsi al mondo da perfetto sconosciuto con la mission certificata di amministratore delegato "terzo e tecnico" scelto, proprio per la sua presunta assenza di ambizioni politiche, dagli azionisti forti del governo giallo-verde: Luigi Di Maio e Matteo Salvini.
Eppure, già pochi giorni dopo si trova sbalzato sul tetto del pianeta al G7 di Charlevoix, in Canada. Il massimo che gli si imputa è una certa "solitudine" da timido nel seguire i big nella passeggiata a uso di tv e fotografi. Ma il NYT e Le Figaro lo descrivono educato, elegante, riservato. Ed è subito feeling con Donald Trump, che lo invita alla Casa Bianca per il mese successivo. Ed è del resto il presidente americano, un anno dopo, a seppellire l’internazionale sovranista e a tirargli la volata verso il Conte Due in salsa giallo-rossa: è negli annali il tweet del "Giuseppi".
In realtà, Trump è ’solo’ uno degli sponsor dell’uomo che doveva restare nell’ombra per Salvini e Di Maio. Anzi, a dispetto della retorica anti-europea, anti-francese e anti-tedesca del leader leghista (ma anche dell’allora vicepremier stellato), è soprattutto in Europa che il professore di diritto a Firenze ma venuto dal Sud (Volturara Appula, Foggia) tesse una fitta tela di intense relazioni: i suoi punti di riferimento diventano Angela Merkel e Emmanuel Macron. Dice poco o dice tanto, ma nel pieno della guerra di parole alla Francia del duo Salvini-Di Maio, tocca a Conte tenere un canale aperto: al crepuscolo, alla Casina Valadier, a Villa Borghese, Conte, Macron e signora si ritrovano per l’aperitivo del disgelo. "Vi dico dove andare a cena – insiste con gli ospiti – Anzi, prenoto io". Telefona al ristorante Pierluigi, vicino a Via Giulia: "Sono l’avvocato Conte, vi mando il Presidente Macron e signora".
Insomma. Nel governo più anti-poteri forti d’Europa, si rivela come il più europeista dei premier. Nell’esecutivo più populista, come il più mediatore dei politici. Ed è su questo terreno che, d’altra parte, decolla il rapporto più decisivo e rilevante per la fortuna politica dell’avvocato: quello con il Capo dello Stato. Sono due, anzi, i suoi santi protettori in Paradiso, come è stato notato. C’è Padre Pio, al quale è devotissimo, con tanto di immaginetta nel portafogli. E c’è Sergio Mattarella, che ha seguito, consigliato, indirizzato e anche "protetto" Conte in questi due anni di Vietnam romano.
La rete contiana, internazionale e interna, dunque, al momento della crisi del Papeete è pronta a scattare: e scatta, consacrata al Senato da quel micidiale j’accuse contro Salvini che fa archiviare il Conte Uno e santifica l’avvio del Due. Pochi mesi di governo giallo-rosso e Nicola Zingaretti, tra lo sconcerto di una parte dei suoi, lo indica addirittura come possibile candidato premier di un probabile centro-sinistra. Ma è la pandemia che "oggettivamente" blinda Conte contro ogni tentazione di assalto a Palazzo Chigi, interna e esterna alla maggioranza, mentre la sua popolarità (con annessi Dpcm illustrati in diretta in pieno lockdown) arriva alle stelle. I sondaggi lo premiano settimana dopo settimana e lo candidano a diventare il vero capo dei 5 Stelle. L’attivismo di Di Maio (a base di incontri con Draghi, Letta) lascia il tempo che trova. Gli scontri con i maggiorenti del Pd nel governo anche.
La mossa "populista" su Autostrade, perseguita e gestita scientificamente, scalza definitivamente ogni altro competitor dentro la galassia grillina. Il successo del negoziato sul Recovery fund, giocato sul filo di lana fino all’ultimo e con una tattica tutta politica rispetto all’europeismo di Mario Monti, lo consacra di fatto come il leader di questa "cosa" che è l’alleanza Pd-M5s. Al tal punto che, a differenza dell’ex premier bocconiano, non ha davvero bisogno di farsi un partito suo: lo ha già.
E, d’altra parte, anche scontando una dose non minima di narcisismo (ben alimentata dal fido Rocco Casalino), in una stagione senza statisti, per Giuseppe Conte, professore e avvocato, che parla inglese e sa come ci si regola al mondo, può ben valere, come è stato osservato, il detto attribuito a Sant’Agostino: "Nulla se mi considero, molto se mi confronto".