Alessandro Alfieri, tra i principali esponenti riformisti del Pd, negli Stati Uniti per seguire le elezioni, è drastico: "Stando qui si capisce che in buona parte l’elettorato di Trump è molto simile a quello dei Cinquestelle in Italia". In realtà, potrebbe dire lo stesso di un’altra parte della base trumpiana a proposito della Lega. I motivi dell’inquietudine che serpeggia al Nazareno e delle ipotesi surreali che fioriscono in questi giorni su un possibile riavvicinamento tra i ’gialli’ e i ’verdi’ si spiegano così. Il popolo leghista e quello pentastellato hanno davvero qualcosa in comune. Non è un caso che i 5 Stelle digerirono molto più facilmente l’alleanza con il Carroccio che non quella con l’odiato Pd. Ciò non toglie che ipotizzare oggi un ritorno di fiamma sia pura fantapolitica.
Il problema è che in Italia il confine tra fantapolitica e realtà è evanescente, l’impossibilità un modo dire: dipende dalle circostanze. L’elezione di Trump è una di quelle circostanze che giocano a favore del riavvicinamento. Di Salvini è inutile parlare, ancora non ha smesso di festeggiare. Ma pure il messaggio di congratulazioni a The Donald di Giuseppe Conte era ben diverso dalle reazioni del resto dell’opposizione. La sua "è una vittoria netta, estesa anche al voto popolare". Vero: la parte più compiutamente di sinistra del Movimento ha messo le mani avanti. "Siderale è la distanza con Trump su diritti, economia, migrazione", ha sottolineato l’eurodeputato Pasquale Tridico.
Ma non sono mancate voci in senso opposto – gli europarlamentari pur sedendo a Strasburgo con le sinistre, hanno brandito il successo "contro i finti progressisti" – e, soprattutto una figura determinante per M5s come il direttore del Fatto quotidiano, Marco Travaglio, ha fatto capire alla vigilia del voto di considerare Trump un male minore rispetto a Kamala Harris. Emblematico il titolo urlato ieri in prima pagina: non l’hanno visto tornare. Di qui, l’irritazione tra i democratici: "Fanno sempre come gli pare", sibila un dirigente. E chissà perché un partito autonomo non dovrebbe fare quello che vuole. L’ira nasconde una malcelata preoccupazione. In fin dei conti, l’elogio al neo-presidente di entrambi ruota attorno allo stesso elemento: la pace. Per il leader M5s la sfida di Trump "è fermare le guerre". Per Salvini con lui "non servirà inviare nuove armi a Kiev". Salvo poi assicurare che la Lega voterà in Parlamento "a favore del pacchetto di aiuti", armi comprese. Non sono elementi sufficienti per fantasticare una futura alleanza, ma dietro c’è qualcosa di sostanziale: la consapevolezza che il bipolarismo sta stretto ad entrambi.
Più passa il tempo, più per il M5s l’abbraccio col Pd è una prigione, e anche la Lega trova soffocante il centrodestra. Di terze forze che – svaniti i miraggi neocentristi – possono ostacolare il progetto bipolare di Meloni e Schlein ce n’è una: l’alleanza di chi nel bipolarismo ha tutto da perdere, appunto M5s e Lega. Da qui a prevedere la resurrezione del polo gialloverde ne corre. Sia perché c’è un limite alle parti in commedia che si possono giocare, sia perché di mezzo c’è l’autonomia differenziata. Per la Lega è una bandiera che non può ammainare, per M5s il nemico da combattere. Qualcuno ricorderà lo sdegno con cui Fini assicurò in aula che mai avrebbe più preso neppure un caffè con Umberto Bossi, salvo poi ritrovarsi con lui al governo per una decina d’anni. Stavolta quel caffè è davvero difficile che Conte e Salvini lo bevano insieme.