Roma, 26 maggio 2022 - Con Ciriaco De Mita scompare, definitivamente, la memoria storica, e vivente, della Prima Repubblica, quella della sua versione più controversa e declinante, gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, e che – secondo una antica e mai smentita vulgata – ha dato origine a tutti i mali del Paese con la partitocrazia, poi sfociata in Tangentopoli. Cinque ne erano, infatti, i protagonisti. Del primo, scomparso precoce e fin troppo prematuro, Enrico Berlinguer, segretario del Pci, scomparso già nel 1984, ricorrevano, solo due giorni fa, i cento anni dalla nascita. Gli altri tre formavano il ‘Caf’ (Craxi-Forlani-Andreotti) che governò a lungo, con un patto di ferro, l’Italia tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta. Giulio Andreotti, per sette volte presidente del Consiglio, nemico di De Mita in modo silenzioso ma coriaceo, è morto nel 2013, con l’immagine sporcata da un processo per mafia da cui uscì assolto ma che lo consumò fino agli ultimi giorni. Bettino Craxi, l’alleato-rivale di De Mita, con cui condusse battaglie epiche, trame sottili e scontri all’arma bianca che dilettavano l’intera politica, tenendo tutti con il fiato sospeso, è morto in esilio, in Tunisia, nel 2000, perseguitato dall’ombra delle sentenze di Tangentopoli. Arnaldo Forlani, il più silenzioso di tutti, segretario della Dc dopo De Mita, e che ne ribaltò completamente, e radicalmente, il ‘rinnovamento’ che aveva cercato di imporre al partito Ciriaco, è ancora vivo, ha 96 anni, vive a Pesaro, ma malato e stanco è chiuso, da anni, in un rigido silenzio.
A ‘parlare’ e raccontare di sé era rimasto solo lui, Ciriaco De Mita. Se vanno, con lui, non solo gli anni Ottanta, ma l’intera Prima Repubblica e la sua ultima stagione, quella dei governi di ‘pentapartito’ (Dc-Psi-Pri-Pli-Psdi) che nessuno osava più chiamare ‘di centrosinistra’ perché la carica innovativa connaturata a quell’esperienza si era persa per sempre. Erano governi del Potere per il Potere e i due rivali storici, Craxi e De Mita, ne erano gli araldi, oltre che i contendenti.
Per poco tempo è stato l’uomo più potente d’Italia
Ma c’è stato un tempo, alla fine di quel decennio, gli anni Ottanta, in cui De Mita è stato l’uomo più potente d’Italia (più di Andreotti, di Craxi e, ovviamente, di Forlani): quando fu, insieme, segretario della Dc (carica che mantenne a lungo, un tempo quasi infinito, dal 1982 al 1989) e presidente del Consiglio (carica che durò un amen cioè un solo anno, dal 1988 al 1989). In pratica, De Mita sembrava – ma non era – l’uomo più potente d’Italia. Craxi, che governava un partito molto più piccolo della Dc, e Andreotti, che guidava una corrente molto più esile di quella di De Mita, restavano molto più potenti e forti di lui.
Da Nusco ai vertici del potere dentro la Dc
De Mita veniva dalla sinistra interna alla Dc, ma soprattutto veniva da Nusco, in Irpinia, provincia campana che era come lui: arcigna e profonda, paese di cui ha voluto fare il sindaco fino alla fine, cioè fino all’ultimo dei suoi giorni, ieri. Studiò all’Università Cattolica di Milano, divenne deputato già nel 1963 (restandovi per trent’anni), sconfisse e prese l’eredità del leader dc locale, Fiorentino Sullo, e nel 1969 era già vicesegretario della Dc e nel 1973 era già ministro all’Industria. La Dc governava il Paese, insieme ai partiti laici, e il Pci, nonostante il tentativo di Berlinguer del compromesso storico e quello di Aldo Moro di associare il Pci al governo, stava all’opposizione.
Chi governava la Dc governava il Paese…
Chi governava la Dc, dunque, governava il Paese. Nel 1982 De Mita diventa segretario della Dc sconfiggendo i suoi avversari interni con il primo ‘ribaltone’ nel governo della Dc (che poi gli si ritorcerà contro): si allea con andreottiani, fanfaniani e sinistra interna e sconfigge quello che è già il suo primo avversario interno, Forlani. Quando viene eletto, Nusco scende in piazza per festeggiarlo. Diventano memorabili le partite a tressette dei 'demitiani' o 'avellinesi': Mancino, Bianco, Gargani e, dopo, Mastella. Fu per loro che nacquero le leggende sul ‘clan degli avellinesi’ con tutto quello che, in termini di potere e sottopotere, raccomandazioni e clientele, voleva dire. E fu per quel modo allegro e vivace di vivere il Potere che Gianni Agnelli coniò, in modo dispregiativo, la definizione di 'intellettuale della Magna Grecia': i ‘ragionamendi’ di De Mita, tra una partita di tressette e l’altra, duravano ore e prendevano l’uditorio per stanchezza come le sue relazioni ai congressi o i suoi discorsi in pubblico. Erano lunghi, profondi, raffinati, ma anche estenuanti.
Il tentativo fallito di 'rinnovamento' della Dc
Sette anni alla guida del partito, però, non bastarono a rinnovarlo (eppure 'rinnovamento' era la parola d’ordine della segreteria De Mita) e un anno da premier fu troppo breve per lasciare un’impronta nel Paese. Di certo, De Mita coltivò una nuova classe dirigente – da Mattarella a Martinazzoli, da Castagnetti a Goria – valorizzò la 'primavera di Palermo' (primo mandato del sindaco Orlando nel 1985) e la lotta alla mafia, allora un tabù, nella Dc, e avvicinò molti giovani alla politica. Ma il rinnovamento, l’avvicinamento al meglio del mondo cattolico (De Rita, Prodi, Fabiani, Ruffilli) e l’inserimento degli 'esterni' nelle liste non pagò: alle elezioni del 1983, per la Dc, il tonfo elettorale fu drammatico, anche se allora perdere pochi punti percentuali era una batosta. Alla fine, il vero e unico capolavoro politico di De Mita fu l’elezione di Francesco Cossiga a presidente della Repubblica al primo scrutinio, nel 1985. Per il resto, perdette il vero comando della Dc, logorata dalla guerra tra le correnti, perché troppo preso dal tentativo di arginare la scalata al potere di Craxi, e durò troppo poco in sella come premier.
Il duello infinito con Craxi per l’egemonia
Ma poi De Mita finì avviluppato nello scontro (epico, per la gioia di tutti i giornalisti politici) con Bettino Craxi per la guida del governo. I due duellanti si inseguirono per anni tra finti patti mai mantenuti (“il patto della staffetta” che prevedeva l’alternanza al governo tra Dc e Psi resse una volta sola e poi fu stracciato) e l’intero Paese non poteva che limitarsi a guardare o a tifare per uno dei due. De Mita dialogava con il Pci sulle riforme? Craxi faceva fischiare Berlinguer. De Mita andava a braccetto con i comunisti. Craxi e Andreotti facevano la fronda alla politica estera degli Usa? De Mita apriva a Gorbaciov e al ‘rinnovamento’ (di nuovo e di nuovo fallito) dell’Urss. Craxi abbracciava il neo-liberismo? De Mita riscopriva la dottrina sociale della Chiesa.
Il crollo della Dc e la ‘seconda vita’ di De Mita
Eppure, con tutti i limiti e le contraddizioni di un uomo del Sud che voleva modernizzare la Dc come se fosse un ‘milanese’, De Mita vide e capì l’inadeguatezza di un modello di sistema politico e di società. In fondo, nel suo scontro politico e antropologico con Bettino Craxi si intuiva la percezione di trovarsi di fronte qualcuno che aveva capito come e più di lui la nuova Italia, la modernizzazione, il cambiamento (insomma, gli anni Ottanta), ma che offriva soluzioni 'decisioniste', da potere verticale e presidenzialista, indigeste alla cultura democristiana. De Mita, invece, voleva stabilizzare il sistema, scegliendo il Pci come vero interlocutore, cercando di attualizzare la lezione di Aldo Moro. Dc e Pci, volevano arginare l’ascesa culturale, prima ancora che elettorale, del craxismo, e in parte ci riuscirono. De Mita, da Piazza del Gesù, più ancora che nella breve parentesi a Palazzo Chigi, fu la prima linea di questa resistenza. Quando diventò presidente del Consiglio il suo potere aveva già iniziato a evaporare e a smottare verso Forlani e Andreotti all’interno (che operarono il ribaltone che, dentro la Dc, lo esautorò nel 1989 con la segreteria Forlani) e Craxi all’esterno. De Mita perse la segreteria, ma rimase a Palazzo Chigi per qualche mese ancora, assediato. Quando gli fu chiesto che cosa ne sarebbe stato di lui senza la segreteria della Dc, rispose d’istinto che bisognava chiedersi cosa sarebbe stata la Dc senza lui segretario. Una risposta da orgoglio irpino. Ma l’uscita di scena di De Mita anticipava di poco il suicidio politico collettivo del partito-Stato che sarebbe arrivato da lì a poco, con i referendum maggioritari Segni, Tangentopoli, il crollo della Prima Repubblica, la fine della Dc e l’avvento sulla scena di Berlusconi. De Mita avversò sempre, nell’ultima fase della sua vita, il berlusconismo, prima mantenendo il PPI nel centro-sinistra, poi contribuendo a dare vita alla Margherita prima e al Pd, persino, poi, pur se lo abbandonerà presto per passare all’Udc, che lo elesse europarlamentare, e poi a piccole liste campane locali, di orientamento centrista, fino all’ultima carica. Quella di sindaco di Nusco, ovviamente, rieletto nel 2019 con il 60% dei voti. Il suo ultimo rifugio e il buen retiro di un uomo che ha finito i suoi giorni nella sua terra e che amava un verso di Garcia Lorca: “Seppellitemi con la mia chitarra”. E la chitarra di De Mita è stata la Politica.