Roma, 27 novembre 2024 – In pubblico la premier ci prova a fingersi indifferente, ma bisogna dire che non merita l’Oscar per la migliore interpretazione. “Schermaglie, solo schermaglie”, dichiara. Ma la rabbia che le impedisce anche solo di guardare Antonio Tajani mentre gli stringe la mano all’ingresso del convegno Med Dialogues, raccontano tutt’altra storia. Quella vera. Giorgia è fuori di sé e in privato non lo nasconde: “Basta con queste ripicche da ragazzini, se qualcosa non quadra, ci mettiamo attorno a un tavolo e la risolviamo in modo riservato. Le divisioni in pubblico fanno il gioco dell’opposizione. Volete rompere la maggioranza? Fate, ma ricordate che io ho la golden share: Lega e FI insieme non hanno i voti di FdI”, dice tanto al ministro degli Esteri, quanto al leader della Lega con cui parla separatamente.
Il senso della sfuriata è chiaro: sullo sfondo ci sono le elezioni anticipate, ma lei per prima sa che quella strada è impraticabile. La pistola è puntata, c’è però il rischio che sia scarica. Del resto, la spaccatura provocata da Tajani nel voto sull’emendamento sul taglio del canone Rai – cui l’esecutivo per bocca della sottosegretaria al Mef Lucia Albano aveva dato parere positivo invece di rimettersi alla commissione raddoppiando l’irritazione degli azzurri – non è l’unico tema che manda Giorgia fuori dai gangheri. C’è anche il Libano. Ironizzando sul voto, si attribuisce parte del merito della tregua: “Otteniamo il cessate il fuoco in Libano, penso che il canone della Rai possiamo risolverlo”. Però l’Italia, pur essendo il Paese militarmente più presente nel contingente Unifil, è stata completamente tagliata fuori dalle trattative che hanno portato alla tregua. La responsibilità della defaillance diplomatica per Giorgia non può che essere attribuita ai ministri competenti: uno è Crosetto, l’altro Tajani.
Dunque, la sua ira è comprensibile, anzi giustificata. L’apericena di domenica si era concluso con la raccomandazione a Forza Italia di non partecipare al voto sul taglio del canone Rai. Non è andata così. Il sospetto, che a Chigi è quasi una certezza, è che a imporre la scelta sia stata l’azionista di maggioranza di FI: Mediaset. Non perché interessata al canone in sé ma per il rischio che mamma Rai tentasse di colmare il buco prodotto dal mancato introito con un innalzamento del tetto pubblicitario, tema sul quale ad Arcore sono ipersensibili. Tajani smentisce: “Non c’entra niente la famiglia Berlusconi, io non prendo ordini da nessuno”.
Che ci sia stato o meno lo zampino di Pier Silvio e Marina, questo non basterebbe a spiegare tutto. I fronti sui quali il partito azzurro è all’offensiva sono innumerevoli: non contento dello sgambetto sulla Rai (in ballo per FI c’è anche la presidenza per Simona Agnes ancora in stallo), ora rilancia sullo Ius Italiae: “Andremo avanti, la Lega si convincerà”. Replica via Bellerio: “Noi abbiamo 94 eletti, FI 68”. Ancora: FI si oppone a interventi del governo contro l’eventuale intesa Unicredit-Banco Bpm. Quindi reclama un passaggio parlamentare per l’Autonomia differenziata pur sapendo che ne uscirebbe ridotta a zero. Sulla legge bavaglio per i giudici, a borbottare tanto da provocare lo slittamento nell’ultimo Cdm, è sempre il ministro degli Esteri. Soprattutto, spinge sul rimpasto. Parola tabù per Meloni ma non per Tajani. Che rivendica il ruolo essenziale del Ppe nel portare i conservatori nella maggioranza di Ursula von der Leyen e nell’imporre la vicepresidenza di Raffaele Fitto. Soprattutto, fa pesare la modifica degli equilibri interni alla maggioranza dove FI si considera ormai seconda forza, e il leader azzurro vuole che il ruolo si rifletta nella composizione dell’esecutivo. “Mai chiesto poltrone, sarà la premier a dire l’ultima parola”, chiarisce Tajani. Però vuole che, per il dopo-Fitto, Giorgia guardi dentro FI e che il posto vada ad Alessandro Cattaneo. E già che c’è, non disdegnerebbe di avere un giudice d’area alla Consulta.
I tentativi di minimizzare l’accaduto stavolta servono a poco, nella maggioranza si è prodotta una lacerazione reale. Che può innescare corto circuiti destabilizzanti. Per le pretese che avanza ora FI ma anche per le difficoltà in cui si trova la Lega. Battuto alle elezioni, sull’Autonomia, senza aver ottenuto nulla in manovra, Salvini oltre alla sentenza di Palermo, teme anche il congresso della Lega Lombarda. I candidati per ora sono due, quello sui cui punta il leader è Luca Toccalini, ma non è detto che ce la faccia contro Massimiliano Romeo.