Roma, 14 aprile 2017 - IL CALCIO, lo sanno tutti, è una metafora della vita. Per alcuni, anche della politica. Prendi Forza Italia, un nome di partito che valeva più di 10 slogan: «C’è il rischio che ancora lo urli gente di sinistra quando c’è la Nazionale – ammette un fedelissimo del Cavaliere –, è stato scelto perché efficace e di facile identificazione». Discende dai campi, e questo lo capisce anche un bambino, ma quelli di Milanello, ovvero il centro sportivo dei rossoneri: la squadra come trampolino di lancio per Palazzo Chigi. Il Milan come prosecuzione della politica con altri mezzi, per parafrasare von Clausewitz. Non si chiama forse Forza Milan! l’house organ?
Milan ai cinesi, finisce l'era Berlusconi. Dettagli e reazioni UNA MACCHINA di consenso pazzesco: se il Diavolo va bene – il ritornello dei sondaggisti – può far guadagnare a FI anche l’1.5% nei consensi. Così, è difficile dire quale presidenza per Berlusconi sia preponderante: chi sa decidere se è nato prima l’uovo o la gallina? Le carte dicono che acquista il Milan nel 1986 e ‘solo’ il 24 gennaio 1994 scende in politica: la scelta dei termini la dice lunga, ma i destini si incrociano inesorabilmente nella primavera ’94. Quando Berlusconi vince le elezioni e la squadra si aggiudica la Coppa dei campioni stracciando 4-0 il Barcellona di Cruyff. Sulla panchina c’è Capello: assieme a Sacchi l’allenatore che il Cavaliere ha amato perché le loro squadre lo divertivano e facevano divertire i tifosi. Già: l’estetica per lui è tutto. Anche in politica: bel gioco e ottime relazioni con le persone binomio indissolubile. Nel segno dello spirito di spogliatoio: se qualcosa si guasta nel meccanismo, sotto con una nuova stella. Si è privato di Andrij Shevchenko (175 gol in rossonero), figuriamoci se non può rottamare Fini o Alfano. E GIOIE e dolori sono sempre andati di pari passo in entrambi i campi: la prima traversata nel deserto in politica dopo la vittoria dell’Ulivo di Prodi nel ’96 coincide con il purgatorio del Milan che riesce a vincere ‘solo’ uno scudetto e per di più grazie a un «comunista», per citare proprio Silvio: Alberto Zaccheroni. La riscossa ha il volto di Rui Costa che compra dalla Fiorentina per 41 milioni nel 2001, bilanciati da un plebiscito di voti nelle urne. E Berlusconi torna da trionfatore a Palazzo Chigi; la macchina rischia di incepparsi nel giugno 2009, quando vende Kakà al Real a cavallo delle Provinciali: il suo candidato, Podestà, riesce a battere Penati ma 3.500 schede furono annullate dalla scritta «questo voto è per Kakà». Diceva Colin Firth nel film Febbre a 90°: «Dopo un po’ tutto si mescola nella testa e non riesci più a capire se la vita è una merda perchè l’Arsenal fa schifo o viceversa». Già: alla lunga la commistione annebbia le idee, facendo male tanto alla politica quanto allo sport. Vero è che il Cavaliere ci ha speso tantissimi soldi ma ne ha avuto un ritorno immenso in popolarità: il Milan è la seconda squadra in Italia per tifosi. FINCHÉ è riuscito a vincere gli ha dato tanto: poi è diventata una palla al piede di Berlusconi, costretto a spendere anche in tempi di vacche magre per placare le ire dei sostenitori. Però i risultati negli ultimi anni sono stati sempre meno soddisfacenti. Può un precursore, uno che si butta sul mercato degli olandesi da un verso crea un partito dal nulla non reagire? Avendo capito che la struttura familiare non può reggere una squadra vincente a livello planetario come il Milan di un tempo, ecco che Berlusconi dopo 31 anni passa la mano: lo fa senza nascondere il dolore. L’amarezza. Il travaglio. «Non si cambia bandiera», è solito dire. Ora che volta pagina nello sport, un interrogativo resta appeso sopra San Siro: lo farà anche in politica?