Milano, 12 giugno 2023 – Silvio Berlusconi ha significato per l’Italia un nuovo modo di fare e concepire la politica. Ha bruscamente introdotto nuove coordinate, dalla politica pop alla personalizzazione, in una politica italiana per molti aspetti ancora ‘vecchio stile’. E ha condizionato anche il modo di fare politica di alleati e avversari.
La sua repentina e durevole realizzazione ‘strutturale’ è indubbiamente stata Forza Italia, che utilizzò come strumento per costruire la quasi ventennale stagione del difficile e frammentato bipolarismo italiano. Forza Italia nacque come partito personale, ovvero un partito nato soprattutto per consentire l’ascesa al potere del suo leader e a lui così funzionale da non avere mai assunto una vita autonoma. Forza Italia venne alla luce nella forma di un partito carismatico e partito carismatico è rimasta per tutta la sua vita. Il che significa che ha posseduto un’unica fonte di legittimità e autorità, ovvero Berlusconi. Ma significa anche che, pur organizzandosi sul territorio, non ha mai assunto una solida struttura e non ha mai sviluppato una vita anche solo vagamente democratica al suo interno. Carriere, ascese e cadute sono sempre state legate al volere del leader, così come avvicendamenti nei ruoli e riorganizzazioni del partito. Per non parlare delle decisioni politiche chiave, comprese le tante capriole di un leader che si era presentato come colui che avrebbe costruito una forza popolare liberale per una democrazia maggioritaria e lungo la strada ha mille volte tradito l’una e l’altra promessa. Ma ogni volta, in queste sue evoluzioni, è stato seguito dai dirigenti del partito, dai ‘suoi’ dirigenti. E quando ciò non è accaduto, nei rari casi di dissidio, l’opzione per i dissidenti è stata l’exit, l’abbandono del partito, una organizzazione che non ha mai contemplato il dissenso. È vero che negli ultimi anni le uscite da Forza Italia sono aumentate. Ma ciò è avvenuto in corrispondenza del calo di consenso del partito e della contestuale avanzata della Lega prima e di Fratelli d’Italia, poi. Fenomeni che hanno sollecitato la fuoriuscita di un ceto politico coltivato dentro il partito berlusconiano e molto vocato al carrierismo. Ma per chi è rimasto il partito ha continuato a funzionare come sempre: in modo carismatico, centralizzato, personalizzato. L’unico ad essere alla fine emerso è stato Antonio Tajani, forte della legittimazione proveniente dalle istituzioni dell’Unione Europea: prima Commissario poi, soprattutto, Presidente del Parlamento Europeo. Ma nemmeno lui ha mai mostrato una reale autonomia dal leader, anche nei tempi più recenti, di fronte ad esempio alle dichiarazioni di Berlusconi sui suoi rapporti con Vladimir Putin e le sue opinioni sulla guerra, sull’Ucraina e su Zelensky. In questi frangenti ha ribadito le posizioni del governo di cui è importante esponente (opposte a quelle di Berlusconi) senza rinnegare esplicitamente le parole di Berlusconi. Acrobazie che confermano la permanenza di una idea di ‘sacralità’ del capo che è sopravvissuta alla lunga crisi del partito. E ora? Lo stesso Tajani non ha certo la capacità di attrazione di Berlusconi, che negli anni ha mantenuto un nucleo duro di elettori fedeli soprattutto alla sua persona. Ed è lecito chiedersi se avrà la forza di tenere insieme quel che è rimasto della classe dirigente berlusconiana. Elettori e classe dirigente, d’altro canto, da tempo sono scivolati verso destra e vista la grande forza attrattiva della vincente del momento, Giorgia Meloni, è fondato ipotizzare che il suo partito sarà uno dei poli di attrazione più significativi di una Forza Italia a rischio deflagrazione. Lo scopriremo tra breve. Ora che il leader si è spento, calcando ancora le tavole del palcoscenico.