Mercoledì 17 Luglio 2024
DAVIDE RONDONI
Politica

Berlusconi e le parole: così il Cavaliere inventò un nuovo modo di comunicare

Le sue doti di oratore erano uno dei suoi maggiori punti di forza e lo aiutarono ad avere successo prima come imprenditore e poi come politico

Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi

Molto del successo di Berlusconi si deve alle sue doti di oratore. Non solo di oratore in pubblico, ma anche in privato, come ho constatato anch'io. Sarebbe riduttivo pensare che fossero solo doti da "venditore" o, come vogliono i suoi avversari, da imbonitore. Fin da quando girava nei locali da ragazzo a Miramare a cantare e a far divertire, e poi via via per tutta la sua lunga carriera, Berlusconi ha imparato quanto sia importante la parola. E non solo per sedurre, ma per convincere.

E la prima convinzione e la più difficile è proprio la convinzione "teatrale". Intendo dire che come l'uomo Berlusconi ha fatto in un certo senso teatro della sua esistenza, con gesti, atteggiamenti, situazioni, edifici etc, così ha trascinato gli italiani in un grande teatro. E la cosa è tutt’altro che negativa, anzi. Senza ritenere la vita un "teatro" in cui si confrontano forze diverse, in cui ci sono personaggi e maschere, in cui c'è una trama da comprendere a volte segreta, non si vive veramente.

Perciò la capacità retorica e oratoria di Berlusconi - usata certo per le sue idee e i suoi interessi - aveva la forza come pochi altri di creare un teatro. Non il teatrino misero e spesso noioso della politica e delle sue infinite chiacchiere, ma il teatro epico della vita.

Le sue espressioni ( dalla "discesa in campo" al "presidente operaio" fino ai "io resto qui" e ai tanti slogan) sono tutti nel segno dell'epica teatrale. Il che obbligava (convinceva) ammiratori e detrattori a vivere nello spazio teatrale che lui creava. A far sentire tutti più "protagonisti". Tale forza non è banalmente capacità commerciale o seduttiva. Certo, l'uomo sapeva che le parole sono un'arma seducente e efficace. Ma credo che tale forza espressa nella sua retorica venisse da un più intimo convincimento, e da un esercizio non banale del linguaggio. Il convincimento di essere davvero chiamato a muoversi sul palcoscenico principale della contesa sociale e politica, e a richiamare tutti a esserlo in una certa misura, e un esercizio che aveva appreso da buoni maestri e da una certa attenzione alla cultura.

Ricordo che fu la Fondazione sua personale a finanziare la traduzione presso un grande editore americano dello Zibaldone di Leopardi, e che si mise in posa a Trieste accanto alla statua di Umberto Saba ricordando come i suoi "versi semplici colpiscono il cuore". Sapeva che un leader politico non può usare verso i suoi interlocutori del popolo, che non hanno né tempo né voglia di sfogliare le rassegne stampa o le analisi dei politologi, un linguaggio oscuro. E sceglieva l'epica, le metafore chiare, il richiamo al noto. E indicava con "sinistra" tutto ciò che non gli andava a genio, politici o arbitri che fossero.

Non era solo semplificazione era anche rispetto dell'interlocutore che deve capire cosa pensi. E se paragonò Giovanni Paolo II al Milan perché anche il Papa portava in giro per il mondo un'idea vincente, Dio, e se promise un pullman di "belle ragazze" ai giocatori del Monza se avessero vinto, era perché sapeva che la vita o è esagerata o non è. Ora di certo, anche in cielo non starà tra il pubblico.