Roma, 14 giugno 2024 – Bagarre. Ultimamente sta succedendo spesso. Lo schema è rodato: un classico repubblicano quanto la parola che lo descrive. Ba-gar-re , sostantivo femminile di derivazione francese. L’origine è mista, un po’ basca, un po’ provenzale. Vuol dire subbuglio, tecnicamente una baruffa, che poi degenera in rissa. Come nel ciclismo, da cui proviene il termine: le bici si ammucchiano, i manubri si toccano, qualcuno cade, qualcun altro deraglia e in un attimo è un carnaio.
In Aula a Montecitorio mercoledì, tutto è partito dallo sventolio del Tricolore in faccia al leghista Calderoli ed è finito con il cinquestelle Leonardo Donno uscito in carrozzina. Ché le botte, va detto, le ha prese. Volontarie o involontarie, lo chiariranno le forze dell’ordine che hanno acquisito i filmati, come allo stadio. Ed ecco un’altra tipicità tutta parlamentare: pensarsi curva e agire di conseguenza. Con gli striscioni, i cori, le offese e poi di tanto in tanto le botte.
Quante volte sarà andata in scena la bagarre? Decine, centinaia. Decine di migliaia se ci si limita a quelle verbali. Ordinaria amministrazione: è la passione politica che ci anima, vostro onore. Un qualcosa di fisico, un magma di odio e amore che a un certo punto non può che eruttare. E allora le braccia si cercano sopra alle teste, le cravatte (è una pratica ad appannaggio prevalentemente testosteronico) si aggrovigliano, le gambe cercano stinchi altrui e sopra a tutto ci sono i guanti dei commessi. Forza di interposizione non violenta, nel tentativo ingrato di separare i litiganti senza prenderle, e di far rispettare regole e decoro dell’istituzione. Potesse parlare liberamente, un commesso di Camera o Senato, quante ne avrebbe da raccontare.
Le peggiori? Quelle con le scolaresche in visita. Come il 27 novembre 2019. Aula di Montecitorio, ore 18,40: sul Mes parte un mega-rissone che coinvolge decine di deputati con tanto di lancio di una sedia, frantumatasi davanti agli occhi sgranati degli studenti e alle lacrime dei loro docenti, con buona pace delle ore perse a parlare del senso delle istituzioni. Qualche mese dopo, a dicembre, la bagarre è sonora, volano parolacce irripetibili, e quando qualcuno dice al leghista Centinaio ‘ti aspetto fuori’, lui con aplomb allarga le braccia, gli indici e i pollici stesi: ‘Ti faccio un c… così’.
Linguaggio non verbale, perché la rissa, attenzione, non è l’unico ingrediente. C’è pure il cinema. 16 marzo 1993, il leghista Luca Leoni Orsenigo parla di Tangentopoli e sventola un cappio. Quell’immagine farà il giro del mondo. 20 ottobre 2020, pieno Covid. Vittorio Sgarbi si rifiuta di mettere la mascherina e dà del fascista al presidente Fico che gliela impone. Finirà con il critico che urla ‘ritornerò’ mentre i commessi lo trascinano fuori di peso.
Dice: cose da Seconda Repubblica, ma la prima non era da meno. 1953, Meuccio Ruini, reggiano, il presidente di maggio (guidò Palazzo Madama per 90 giorni), cerca di sedare una rissa ma riceve uno sportello in faccia e allora si dà da fare anche lui. Finirà coi commessi che lo trascinano via, coi pantaloni che a un certo punto cedono, lasciandolo in mutandoni mentre urla ‘Viva l’Italia’. Infine c’è la musica. Un discorso di De Gasperi finì con l’Internazionale cantata da sinistra mentre da destra intonavano l’Inno di Mameli. Il presidente era stato interrotto 32 volte da: buffone! (Togliatti), bugiardo! (Giolitti), chierichetto! (Basso), servo! (Pajetta).
Pajetta Gian Carlo. Da non confondere con Giuliano, autore invece della madre di tutte le bagarre. È il 1949, si discute l’ingresso dell’Italia nella Nato. I comunisti sono ferocemente contrari. Pajetta dopo ore di urla, ormai afono, letteralmente prende la rincorsa, salta e si lancia su un gruppo di deputati. Telecamere all’epoca non ce ne sono. La cronaca è affidata agli stenografi. Che nei verbali ufficiali, cercando le parole giuste, alla fine scrivono: "L’onorevole Pajetta Giuliano al termine di un alterco si lancia a catapulta su altri onorevoli". La Prima Repubblica, tutto un altro film.