Sabato 16 Novembre 2024
ANTONELLA COPPARI
Politica

Dopo il parere della Consulta. Calderoli: i tempi non cambiano. Ma si teme l’effetto pantano

La maggioranza difende la riforma dei poteri delle Regioni: disinnescato il referendum. Il testo ora torna alle Camere. L’opposizione attacca: le norme spacca-Italia vanno fermate

Roma, 16 novembre 2024 – La decisione della Corte costituzionale sull’Autonomia provoca reazioni a valanga, ma in realtà nessuno si muove avendo di fronte un quadro davvero chiaro nei particolari: fino all’arrivo della sentenza la politica è destinata a dibattere in una zona di penombra. Non che questo possa modificare le reazioni dell’opposizione che giubila, tripudia e ne ha certamente motivo perché molti dei suoi rilievi restano confermati dalla scelta della Consulta. “Il governo ha fallito, si devono fermare”, dice Schlein. “Sono dilettanti”, chiosa Conte. Nell’agone la sinistra butta anche Sergio Mattarella e le sue dichiarazioni sulle leggi promulgate anche se non condivise: “Si ascolti il suo messaggio”, avverte Bonelli.

Roberto Calderoli
Roberto Calderoli

Diverso è il caso della maggioranza. “Non c’è alcun disorientamento. C’è il richiamo al Parlamento con l’indicazione di alcune linee guida di rettifica”, assicura il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. La Lega insiste nel mostrarsi soddisfatta: “L’Autonomia è stata riconosciuta come costituzionalmente corretta”, taglia corto Matteo Salvini. Non potrebbe fare altro ma non è solo teatro. Roberto Calderoli si prepara a tornare al lavoro per indicare le modifiche necessarie: il ministro degli Affari regionali dice che i tempi non cambiano, le osservazioni della Corte possono essere “agevolmente” superate in fase di attuazione della legge, “anche” con il coinvolgimento delle Camere. Su due punti, però, non sembrano esserci grossi spazi di intervento: la necessità di mantenere allo Stato la disciplina dei servizi e dei diritti da assicurare ai cittadini su questioni fondamentali. Ecco perché l’intesa sul trasferimento di poteri non può riguardare intere materie ma specifiche funzioni. E la centralità del Parlamento: ragion per cui sulla definizione dei livelli essenziali di prestazione dovrà dire la sua. Il tutto senza scassare i conti pubblici. “Intanto – la replica leghista – incassiamo le materie non Lep. E i negoziati con le Regioni interessate vanno avanti”.

È difficile – spiegano in ambienti parlamentari – riprendere in mano l’Autonomia prima di gennaio e febbraio. E una volta che apri il vaso di Pandora delle modifiche è difficile chiuderlo in fretta. Senza contare che il comitato per definire i Lep non andrà oltre la fine dell’anno: “Il comitato è stato istituito per decreto, e cesserà alla data in cui prevede il decreto, il 31 dicembre 2024”, spiega il presidente, Sabino Cassese.

Risultato: al Congresso federale atteso a inizio 2025 è assai improbabile che si sbandieri l’attuazione di una storica battaglia leghista. Di qui i mugugni fra gli storici militanti della Lega Nord nei confronti delle strategie attuate dai vertici attuali.

Molto più sinceramente soddisfatto il resto della maggioranza. “La Consulta ci ha dato una mano: i tempi si allungano, così possiamo fare le cose per bene”, i ragionamenti che si odono in queste ore dentro FdI e FI. Nei due partiti si sottolinea che alcune delle criticità indicate dalla Corte era state sollevate anche da loro. I ’tricolori’ ricordano che per loro sarebbe stato meglio fare una riforma “light” e che non hanno nascosto i dubbi sulla determinazione dei Lep per Dpcm e sulla regolazione delle intese con le Regioni. La Consulta, rincara il leader di Forza Italia, Antonio Tajani, “pone il problema della centralità del Parlamento, soprattutto per quanto riguarda i Lep. Questa è stata sempre la nostra posizione”. Spiega il ministro dei rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani (FdI): “Abbiamo tempo per correggere gli errori, andremo avanti su questa strada. Manca un sacco di tempo alla fine della legislatura”.

Una cosa mette d’accordo tutta la maggioranza: è disinnescata e probabilmente cancellata la principale mina che era il referendum. Ma in effetti il pronunciamento della Consulta per Giorgia Meloni è in buona parte una rosa, con il gambo però non privo di spine acuminate. E per quanto non si scaldasse affatto per questa riforma, a vararla è stato il suo governo, cioè è stata lei, e la prima tra le grandi riforme annunciate dalla destra in fondo ha ballato una sola estate. E questo per l’immagine della premier non è un vantaggio.