Roma, 21 giugno 2024 – L’Autonomia differenziata oggi è soltanto una bandiera ideologica che cambia colore con il mutare delle stagioni politiche. È figlia della modifica costituzionale del 2001 quando D’Alema, illudendosi di sedurre Bossi tornato con Berlusconi, fece approvare con tre soli voti di maggioranza la modifica del titolo V della Carta che delega alle Regioni una enorme quantità di poteri (dalla sanità al turismo all’energia). Al referendum confermativo, la riforma passò con dieci milioni di sì contro cinque milioni di no.
La legge ordinaria approvata all’alba di mercoledì scorso e giudicata dalla sinistra una specie di colpo di Stato è la semplice applicazione di una riforma voluta dalla sinistra stessa: tanto è vero che Stefano Bonaccini, presidente del Pd e dell’Emilia-Romagna, fu lesto a chiedere autonomia su un gran numero di materie, quasi come il Veneto, seguito parzialmente da due importanti governatori democratici, De Luca (Campania) ed Emiliano (Puglia). Salvo poi a cambiare parere con il cambio della stagione politica.
L’Autonomia è materia delicata, da maneggiare con cura perché da occasione per far crescere anche il Sud non ne sancisca il definitivo distacco.
Oggi è poco più di una scatola vuota, perché le materie sensibili (come la scuola) e altre tredici materie per passare alle Regioni hanno bisogno che vengano approvati i Livelli essenziali di prestazione: entro due anni e con un finanziamento valutato dallo Svimez in 100/200 miliardi che non si sa allo stato come reperire. Oggi la materia principale tra quelle non sottoposte a Lep è il commercio con l’estero.
Occhiuto, il presidente forzista della Calabria critico sui tempi troppo rapidi dell’approvazione, mi dice di temere svantaggi, per esempio, per gli agricoltori del Sud: ma questi beneficiano di consistenti fondi europei non erogati ai loro colleghi del Nord.
Lo stesso Occhiuto riconosce, peraltro, che la vera svolta in favore del Mezzogiorno avverrà con il superamento della spesa storica – previsto dalla legge – che oggi favorisce le Regioni del Nord. Occhiuto condivide la mia obiezione che l’arretratezza delle Regioni meridionali dipende dalla loro incapacità di spendere i soldi disponibili, frutto di una classe politica e burocratica spesso inadeguata, e ricorda che lui stesso si è trovato in cassa due miliardi non spesi dai suoi predecessori e aggiunge di essere riuscito a spenderli in due anni. Sostiene che la vera rivoluzione silenziosa la sta compiendo il ministro Fitto che con gli ‘accordi di coesione’ costringe gli amministratori regionali a condividere con il governo modi e tempi della spesa dei soldi del Pnrr per evitare dispersioni clientelari in favore di opere strutturali.
Secondo il governo, il dissenso con il governatore De Luca nascerebbe proprio da questo. "I Lep sono la chiave di volta dell’intero sistema – mi dice Luca Zaia, presidente leghista del Veneto – e sono essenziali per abbattere le disuguaglianze che riguardano soprattutto il Sud. Ci sarà chi avrà convenienza ad applicare i Lep e chi no. E allora ne vedremo delle belle". Dico a Zaia del timore che il Veneto, per esempio, paghi meglio medici e insegnanti. "Per fare questo – risponde – bisogna rivedere tutta la contrattazione nazionale. Siamo perciò in una fase primordiale per affrontare questo discorso. Dopodiché dovremo capire quali saranno i veri numeri di questo Paese. I Lep dovrebbero aiutarci a vedere bene chi spreca, come spreca e dove spreca".
Ha ragione il segretario di Stato della Santa Sede Parolin quando dice che l’Autonomia dovrà essere un’occasione di sviluppo e non di disuguaglianza.
Ma questo dipenderà più dagli amministratori che dalla legge.