Roma, 3 gennaio 2025 – La Storia procede per date e il loro scorrere nel calendario contribuisce a formare la memoria collettiva di una nazione. Quella del 3 gennaio 1925, cento anni fa, un freddo pomeriggio di un sabato romano ancora distratto dai festeggiamenti del capodanno, è una delle più infauste del nostro passato. Una ricorrenza che non va celebrata, perché non c’è niente da celebrare, ma che sarebbe un peccato mortale dimenticare, e che per comprendere bene vale forse la pena di analizzare allo specchio, come in un negativo fotografico. Non limitandosi quindi al discorso di Mussolini alla Camera, quello in cui il Duce rivendicò la responsabilità morale e storica dell’omicidio Matteotti (“un discorso addirittura pazzesco, e se fallisce l’unica carta che abbiamo, ossia il Re, si potrà fare le valigie ed emigrare all’estero”, scrisse la sera stessa Anna Kuliscioff a Turati), il discorso passato come l’inizio della dittatura, ma analizzando anche l’incomprensibile comportamento di tutte le opposizioni, che inanellarono un errore politico dopo l’altro e permisero al presidente del consiglio di accelerare nel criminoso piano inclinato che portava al definitivo colpo di stato. Piano che era in atto da tempo ma che con ogni probabilità Mussolini avrebbe completato solo qualche mese dopo se non ci fosse stato il decisivo intervento di un manipolo di consoli delle milizia (Balbo in testa) che all’indomani della pubblicazione del memoriale di Cesare Rossi (27 dicembre 1924) sulle conclamate responsabilità del Duce in merito all’assassinio Matteotti non gli avessero imposto di abbandonare ogni tentazione al compromesso e di sbaragliare il campo con una, l’ennesima, azione di forza parlamentare.
Il banco degli imputati in questo fantomatico processo alla storia è molto affollato, almeno nel gioco forse un po’ sterile che è la storia riletta a posteriori. Dato per acquisito che il primo a sedervi è ovviamente Mussolini, i giorni e le settimane precedenti il 3 gennaio rappresentarono il crac completo di una classe dirigente, che avrebbe potuto e dovuto opporsi in modo efficace al figlio di un fabbro romagnolo, in pochi anni assurto a padrone d’Itala.
Quello che successe tra fine 1924 e inizio 1925 è peraltro ancora più grave di quanto successe a fine 1922, quando la classe dirigente non fascista non seppe riconoscere il pericolo fascismo, e accettò che Mussolini salisse al potere per poi “inglobarlo”, compiendo un clamoroso errore di valutazione della reale forza dell’avversario, della propria forza e soprattutto degli umori che stavano serpeggiando nel paese (ricordiamo che Mussolini divenne presidente del consiglio in seguito a un voto di fiducia parlamentare, fiducia votata da ben tre futuri presidenti della repubblica, Einaudi, De Nicola, Gronchi, quattro se continiamo che De Gasperi nel 1946 fu per quindici giorni capo provvisorio dello stato).
Ciò che accadde nel 1925 è più grave perché nella seconda metà del ’24 Mussolini si trovò in una situazione di gravissima debolezza seguita alla reazione di sdegno popolare per l’omicidio Matteotti, così che il nostro immaginario banco degli imputati le aggravanti storiche risulterebbero ancora più pesanti.
In prima fila, oltre - come abbiamo detto a Mussolini, dietro le sbarre per flagranza di reato - siede il re, Vittorio Emanuele III, che coprì le spalle ancora una volta al regime, come accadde nell’ottobre ’22 quando si rifiutò di firmare lo stato d’assedio. C’è la vecchia classe dirigente liberale, inerme e inerte, i vari Giolitti, Salandra, Orlando, prigionieri di schemi mentali ormai passati. Ci sono i grandi vecchi dell’epoca, e basti pensare al comportamento di Bendetto Croce, il grande Croce, il filosofo della libertà che il 25 giugno 1925, a Matteotti morto e assassini fascisti rei confessi, votò la fiducia parlamentare al traballante governo Mussolini, contribuendo a fargli passare la nottata (il successivo Manifesto degli intellettuali antifascisti del maggio 1925 chiuse la stalla quando i buoi erano già scappati). Ci sono i socialisti riformisti di Turati, il partito di Matteotti, anche loro deboli, incerti, spaesati, nonostante il cadavere della vittima fosse il loro segretario politico. Ci sono meno degli altri i comunisti di Gramsci, Bordiga e Togliatti, che almeno nel novembre 1924 trovarono la forza di scendere dall’Aventino e di rientrare alla Camera, considerando però che loro i danni li avevano fatti prima, predicando quella rivoluzione leninista che tanto spaventò la borghesia e mise la benzina nel motore al fascismo. Senza scordarsi del Vaticano, che già tempo aveva barattato la libertà dell’Italia con la propria, ottenendo nel ’23 da Mussolini il salvataggio delle banche cattoliche e iniziando i colloqui che sfociarono nei (vantaggiosissimi, per loro) Patti Lateranensi.
Un tribunale quindi molto affollato, che condannerebbe ovviamente Benito Mussolini ma da cui nessuno degli altri potrebbe uscire indenne. Nè dal giudizio della Storia men che meno da quello della propria coscienza.