Napoli, 7 novembre 2022 – Torture, maltrattamenti e lesioni pluriaggravate. Sono solo alcuni dei capi di accusa nei confronti dei 105 imputati del maxi processo sulle presunte violenze al carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. È iniziato questa mattina, nell'aula bunker del carcere, il processo relativo alle presunte torture avvenute nell'istituto penitenziario casertano durante l'emergenza pandemica. Alla sbarra, ci sono 105 persone, tra poliziotti e funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, rinviate a giudizio dopo le lunghe indagini sul caso.
I reati, contestati a vario titolo, vanno dalla tortura all’omicidio colposo come conseguenza di tortura – contestato solo a 22 dei 105 imputati – lesioni pluriaggravate, abuso di autorità, falso in atto pubblico. In udienza preliminare si erano già costituiti parti civili quattro associazioni e 95 detenuti dei 177 identificati come parti offese.
La prima udienza: cosa è successo
Si è svolta oggi la prima udienza del processo – denominato "Mazzarano più altri" – relativo ai fatti avvenuti il 6 aprile 2020, mentre il Paese faceva i conti con le restrizioni introdotte per frenare l'avanzata del Covid e nelle carceri si svolgevano proteste che hanno interessato gli istituti penitenziari di tutto il Paese. Le manganellate furono riprese dai video interni del carcere, usati poi dalla procura per le indagini. Presenti molti imputati, ma anche qualche vittima e i parenti dei detenuti, come la figlia Vincenzo Cacace, deceduto nel giugno scorso: il detenuto sulla sedia a rotelle immortalato dalle telecamere interne mentre viene malmenato dagli agenti. Durante l'udienza, altri 26 detenuti identificati come vittime, oltre all'associazione "Italiastatodiritto", hanno chiesto di potersi costituire parte civile.
Elisabetta Carfora, difensore di alcuni agenti, ha sollevato eccezione di incompetenza della Corte d'assise, con richiesta di spostamento del processo al tribunale per quelle posizioni non connesse al reato di tortura con l'aggravante della morte – fattispecie giuridica che ha determinato la competenza dell'Assise – contestata per la morte del detenuto algerino Hakimi Lamine. La corte scioglierà la riserva sulle richieste degli avvocati nella prossima udienza del 14 novembre, così come deciderà sulle istanze di costituzione di parte civile.
La figlia di Cacace: “Ci aspettiamo giustizia”
“La vicenda di mio padre la conoscono tutti: i video sono evidenti, era su una sedia a rotelle. Mio padre ha sbagliato nella sua vita, ma non avevano nessun diritto di fargli quello che hanno fatto. Lui rimase molto sconvolto: ha subito uno stress post traumatico per gli abusi in carcere. E ora da questo processo ci aspettiamo giustizia per lui e tutti i detenuti picchiati selvaggiamente”. A parlare è Antonella Cacace, figlia di Vincenzo, il detenuto sulla sedia a rotelle malmenato dagli agenti penitenziari al carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020.
Le manganellate furono riprese dai video interni del carcere, usati poi dalla procura per le indagini. Cacace è poi deceduto il 18 giugno scorso. La figlia Antonella, con la madre e il fratello, ha proseguito la battaglia giudiziaria iniziata dal papà con la costituzione di parte civile nell'udienza preliminare, e oggi i tre si sono sono presentati all'aula bunker del carcere per assistere alla prima udienza del maxi processo che vede imputati 105 tra poliziotti penitenziari, funzionari medici e dell'Amministrazione Penitenziaria.
La ragazza, 32 anni e tre figli, non trattiene l'emozione quando ripercorre gli ultimi anni di vita del padre, contrassegnati dallo choc profondo per le violenze in carcere. Eppure Vincenzo inizialmente non ne aveva parlato con i familiari. “Fin quando è stato in cella – ricorda Antonella – non ci ha mai detto cos'era accaduto. Dopo siamo venuti a sapere che delle rivolte in carcere, e quando è stato scarcerato perché la sua salute era peggiorata, anche degli abusi. Eravamo arrabbiati. Nonostante fosse sulla sedia a rotelle, papà ha combattuto tanto, facendo denunce, parlando con i giornalisti degli abusi subiti”. Antonella ha assistito il papà, una volta uscito di carcere e fino alla morte. “Non riusciva più a dormire, si svegliava spesso e diceva 'appuntato accendimi la luce, fammi questo, fammi quell'altro’, quelle botte gli erano rimaste impresse”.
I fatti: cosa è successo il 6 aprile 2020
I pubblici ministeri sostengono che quel giorno numerosi detenuti subirono violenze e torture, un'azione di risposta contro le proteste dei reclusi avvenute in pieno lockdown. Il processo è orientato a fare luce sulle “perquisizioni” degli agenti in alcune aree dell'istituto: durante le indagini è emerso che i carcerati sarebbero stati costretti a subire schiaffi, pugni e manganellate, ma anche offese di ogni genere, atti ritenuti "violenti, degradanti, inumani" e "contrari alla dignità e al pudore delle persone recluse".
Alcuni degli episodi di pestaggio vennero registrati dalle telecamere di videosorveglianza dell'istituto. Si indaga, inoltre, sui fatti legati alla morte di un detenuto, Hakimi Lamine, deceduto in carcere appena un mese dopo le violenze. Era stata l’associazione Antigone – che si batte “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” – a fare esplodere il caso e presentare un esposto in procura due settimane dopo le presunte violenze, raccogliendo i racconti di numerosi familiari dei carcerati.
Il racconto di un detenuto
“Non posso ripensarci, vado al manicomio. Secondo me erano drogati, erano tutti con i manganelli, anche la direttrice". Sono le parole con cui Vincenzo Cacace, ex detenuto sulla sedia a rotelle nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ricorda il pestaggio da parte della polizia penitenziaria. "Sono stato il primo ad essere tirato fuori dalla cella perché sono sulla sedia a rotelle. Ci hanno massacrato – racconta – hanno ammazzato un ragazzo. Hanno abusato di un detenuto con un manganello. Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso. Volevano farci perdere la dignità, ma l'abbiamo mantenuta. Sono loro i malavitosi perché vogliono comandare in carcere. Noi dobbiamo pagare, è giusto ma non dobbiamo pagare con la nostra vita. Voglio denunciarli perché voglio i danni morali".
Cartabia: "Oltraggio alla dignità dei detenuti"
Il quadro che era emerso da quella prima ricostruzione era inquietante, tant’è che l’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, aveva rilasciato parole di dura condanna. "Un'offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere", aveva detto la Guardasigilli.
Sono stati mesi difficili quelli a seguire, il Dap aveva chiesto agli agenti della polizia penitenziaria di recarsi al loro in borghese per evitare rappresaglie per strada. L’udienza si svolge nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere – riaperta quattro giorni fa dopo un ammodernamento tecnologico – la stessa dove venne dibattuto il processo "Spartacus" contro i clan di Casal di Principe.