Un padre e suo figlio, un ragazzo sensibile, con animo e talento da poeta, che da quando è morta la mamma affoga nell’alcol il suo dolore. Ma quel male di vivere appartiene a tanti e Luca Zingaretti lo racconta con tocco lieve, senza enfasi, nel suo primo film da regista, La casa degli sguardi, liberamente ispirato all’omonimo libro di Daniele Mencarelli. Presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma sarà nelle sale in primavera, con Zingaretti nel ruolo del padre e Gianmarco Franchini in quello del figlio Marco. Il film è ambientato a Roma dove Marco lavora con una ditta di pulizie all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù: un luogo dove incontra il dolore degli altri ma scopre anche la solidarietà, la forza di resistere, l’attaccamento alla vita.
Zingaretti, come è arrivato a questo esordio?
"Erano diversi anni che coltivavo questo desiderio. Anche come attore avevo collaborato con i registi dei film che interpretavo. Mi chiedevano, “Luca, come faresti questa scena?“. E ho cominciato a cambiare punto di vista, pensando non solo a come interpretare le scene ma anche a come girarle. Poi quello che è successo nel 2019 mi ha dato la spinta decisiva".
Cosa è accaduto?
"Mi sono trovato a dovere dirigere dall’oggi al domani gli ultimi tre episodi di Montalbano a causa della malattia di Alberto Sironi, regista della serie, amico, complice. Ed è stato come girare tre film. Io mi chiedo sempre: aldilà del mio desiderio, sarò in grado di fare questa cosa? Ma l’avere superato quella prova ha fatto cadere la mia ultima remora. Così, avendo già fatto anche una quindicina di regie teatrali ed essendo una persona curiosa, ho deciso di fare questa nuova esperienza. Anche se fare l’attore mi diverte sempre molto".
La maggiore difficoltà nell’affrontare questo nuovo lavoro? "Facendo un film su un ragazzo vittima dell’alcol, era forte il pericolo di cadere nel melò, di essere ricattatori o inautentici. Ma Gianmarco Franchini è un attore e un ragazzo che non ha paura di mostrare la propria anima e che ha dato al suo Marco verità e autenticità".
Un ulteriore passo per allontanarsi da Montalbano?
"No, non mi sono mai posto questo problema. Piuttosto in passato sono stato poco generoso nei confronti di un’esperienza che, pur togliendomi qualcosa, mi aveva dato così tanto: un’esperienza ricchissima, vent’anni meravigliosi. Purtroppo non tutti goduti come avrebbero meritato perché, essendo uno inquieto, a un certo punto la vivevo come una costrizione. Ora, comunque, voglio godermi il presente perché fare questo film è stata un’esperienza di una pienezza mai provata prima".
Il suo padre del film non ha un nome, si chiama “padre“ e basta. Che padre è?
"Il ruolo del padre cambia a seconda della società. Questo è un padre, un tranviere, che forse non ha gli strumenti per affrontare le inquietudini del figlio ma è un padre moderno. Ha capito che il segreto nella vita è accontentarsi e non dice al figlio cosa deve fare ma lo testimonia con il suo comportamento, con la sua etica. Lui è presente, sa esserci e sa accogliere il figlio, e credo che sia questo, oggi, il ruolo di un padre".
A cosa allude il titolo La casa degli sguardi?
"È il titolo del libro che abbiamo voluto conservare anche per il film, sebbene nel romanzo ci siano sguardi che nel film abbiamo omesso. Lo sguardo è qualcosa a cui non puoi sottrarti. “Guardami negli occhi“, si dice per avere uno scambio sincero, che non ammette menzogne. In questa sorta di viaggio che Marcolino fa nell’ospedale, incontra tanti sguardi ed è come se quegli sguardi lo aiutassero a rimettersi in piedi, a uscire dal tunnel".