Roma, 14 gennaio 2025 – Le streghe non sono mai andate via. Risorgono dalla memoria collettiva, come simbolo di resistenza e ribellione, ogni volta che si ha bisogno di loro. Racconta così Elizabeth Sankey, regista del documentario Witches, in esclusiva su Mubi. Sono Le streghe di Eastwick – Sarandon, Cher e Pfeiffer – che invocano il Diavolo solo per aver osato dar voce ai propri desideri (e riescono anche a sconfiggerlo, alleandosi) o le Giovani Streghe di Andrew Fleming, che negli anni Novanta hanno rappresentato un’intera generazione di adolescenti, emarginate, introverse e poco inclini a nascondere i loro spigoli vivi solo per compiacere gli altri. Soprattutto, però, afferma Sankey condividendo nel film la sua storia personale, "ogni donna è una strega e ogni strega ha bisogno della sua congrega", specialmente quando il mondo intorno si chiude, lasciandola fuori.
Demoniache, egoiste, devianti, le streghe spesso sono solo donne il cui dolore non è stato ascoltato, dismesso per fare spazio ai modelli ideali e patriarcali di brave mogli, brave madri, brave figlie e sorelle. Il loro è un “mostruoso femminile”, per riprendere il titolo di un bel saggio di Jude Ellison Sady Doyle (edito da Tlon): un potere terrificante e terribile "che manda in frantumi il mondo", il potere sul proprio corpo.
Scegliendo di ripercorrere il suo dolore più intimo, dalla depressione post-partum al ricovero in un ospedale psichiatrico, fino alla completa guarigione, la regista britannica assume la metafora della strega come sintesi di una condizione femminile più ampia, che non si riconosce nei confini e nei modelli imposti dalla società, a partire dalla maternità. Witches è quindi un film nato come risposta al bisogno di essere una buona madre, ma ai propri termini e alle proprie condizioni. Rifiuta la pressione patriarcale e al tempo stesso denuncia l’estenuante necessità, per le donne, di dover ancora separare il proprio corpo dalla piazza pubblica, l’aspetto privato da quello sociale. E in questo il cinema, oltre il documentario di Sankey, contribuisce creando diversi modelli di rappresentazione. Non serve arrivare fino alla terrificante strega di Anya Taylor-Joy per Robert Eggers, distruttrice di un ordine simbolico, o alla straordinaria – e molto politica – Elphaba di Cynthia Erivo in Wicked. Basta già una sceneggiatura che includa storie di donne vere, senza figli o senza partner, ma non per questo incomplete o insoddisfatte. Donne non definite dalla propria sessualità ma in grado di esplorarla a ogni età, come Nicole Kidman nel recente Babygirl. O, ancora, storie anche violente e brutali, come Nightbitch o The Girl with the Needle (dal 24 gennaio rispettivamente in streaming su Disney+ e Mubi), in grado di raccontare una versione del femminile forse spaventosa, ma fuori dal controllo e dalla narrazione maschile.
In un mondo che "non è affatto gentile con le donne", afferma cioè Elizabeth Sankey, esistono film, come Witches, che aiutano a fare esperienza anche degli aspetti più difficili e controversi della propria identità, dei propri desideri e della parte più oscura di sé, in uno spazio sicuro. Ammettere perciò, come fa la regista, di stare psicologicamente così male da non riuscire ad amare il proprio figlio neonato, desiderando la propria morte, non solo comporta un’enorme dose di coraggio. È un gesto rivoluzionario, un gesto da strega, soprattutto se compiuto davanti a una macchina da presa, per aiutare tante altre donne che soffrono in silenzio, credendosi dei mostri. Vergogna e senso di colpa sono due sentimenti logoranti che condizionano da secoli gli equilibri sociali tra uomini e donne e del cui peso, ammette Sankey, non ci si rende conto fino a quando non si arriva ad ammalarsi. È per questo che, afferma, è necessario invece "abbracciare la strega che è in noi, perché c’è bellezza e potere dentro il buio".