La Verità da una parte e il mondo dall’altra. Fuori, escluso. Per immolare la vita a Geova, ai suoi diktat, alle rinunce e alle privazioni che diventano illusioni di libertà. Alessandra è una bambina senza Natale né compleanni; Alessandra è una ragazzina lontana dalle mode, dalla musica, dall’amore e dalla sessualità. Le Spice Girls sono "delle meretrici", i Placebo l’incarnazione di Satana. Alessandra è infine una donna che con coraggio sceglie di dissociarsi, di fuoriuscire e di vivere quella vita che sin dalla sua venuta al mondo le era stata negata. Nasce così Il Dio che hai scelto per me (HarperCollins, 2025), esordio letterario di Martina Pucciarelli, romanzo che a partire dall’esperienza personale dell’autrice racconta di un distacco radicale, quello dalla comunità religiosa dei Testimoni di Geova, con tutto il vissuto doloroso che ha portato a quell’addio, arrivando quasi ad annientare sé stessa, fino pure a desiderare di morire. A chiusura di ogni capitolo, una serie di parole chiave che raccontano il viaggio: abbandono, paura, tradimento, disamore, perdita, vuoto, separazione, libertà, rabbia per arrivare a "riscatto".
Alessandra non è Martina, ma il vissuto è comune: com’è stato per lei scrivere ma soprattutto portare fuori una storia così forte e dolorosa?
"Probabilmente non ero preparata a quel che sarebbe potuto succedere. Ho ricevuto tanti messaggi di solidarietà da persone che hanno seguito il mio stesso percorso. Mi fa piacere che questo libro possa far sentire più comprese e meno smarrite quelle stesse persone".
E lei, cos’ha sofferto di più in questa rigidità imposta da Geova? E com’è riuscita a conciliare quei due pezzi di sé, quello nel mondo e quello nella fede?
"La cosa che pesa di più ad Alessandra nel romanzo è sicuramente il non sentirsi vista e valorizzata. Per Alessandra come per me tutto veniva dopo Geova. L’amore verso un figlio, verso un padre e una madre. Vengono dopo Geova anche i tuoi desideri, bisogni. Tutto. Conciliazione? Quella non avviene mai. Quei mondi sono e restano distinti".
Nelle note di chiusura del libro lei scrive: "Il tempo della rabbia e del dolore è finito". Ha dovuto perdonarsi qualcosa o perdonare qualcuno?
"Il perdono è sempre un incontro. Ovvero, perdonare comporta riconoscere di aver sbagliato. In un saggio meraviglioso letto un paio d’anni fa, l’autrice, Chandra Livia Candiani, scriveva del perdono come di un atto di superiorità. Ecco, non è di quel perdono che ho bisogno. È molto di più scegliere di non odiare, di non provare rancore".
La figura della madre di Alessandra appare centrale nelle dinamiche di famiglia. Emerge con lei anche il ruolo della donna secondo Geova: sottomessa, casta, discreta…
"Nell’educazione di Alessandra la donna svolge comunque un ruolo importantissimo, pur in quella sottomissione. È così, annullandosi, che la donna sostiene l’uomo. Niente che abbia a che vedere con l’emancipazione, per quel suo stare costantemente un passo indietro. Proprio in queste ore ho ricevuto il messaggio di una testimone di Geova. Mi ha detto di essere avvocata, avviata alla carriera. Mi ha detto che generalizzo. Credo che la sua sia un’eccezione. È ovvio che in qualche modo occorre adattarsi al mondo che avanza, ma il principio della dottrina è quello: sottomissione. In un passaggio della Bibbia si racconta di quando l’angelo in veste di viandante annuncia ad Abramo che diventerà padre. Sara, sua moglie, ascolta di nascosto quel dialogo e nel suo cuore ride, dicono le Scritture, e chiama Abramo ‘mio signore’. Ecco, Sara nella dottrina di Geova è l’esempio perfetto di sottomissione per quel suo dimostrarsi devota all’uomo persino nei pensieri: ‘mio signore’".
Dopo la fuoriuscita dalla comunità di Geova ha detto di aver fatto ricorso alla psicoterapia. Su quale aspetto ha dovuto lavorare di più?
"Quando cresci in un rapporto totalizzante come quello diventi incapace a cogliere le sfumature che la vita ti propone. Diventa o tutto bianco o tutto nero. Il supporto serve allora per imparare a orientarsi in un mondo che in realtà non conosci. Poi devi imparare a lottare coi sensi di colpa. E ce ne sono tanti che accompagnano la crescita, alcuni più duri ad essere risolti".
Oggi che rapporto ha con la fede?
"Ho vissuto una chiusura totale all’inizio. Adesso sto cercando una strada, ma quello che mi interessa ora non è aderire a un credo. Vorrei conoscere Dio in un’altra veste, non quella associata alla punizione, alla paura e alla ritorsione. Ma un Dio che possa essere altro: accoglienza, amore".