Los Angeles, 11 marzo 2023 - Mentre l’Academy sta seriamente riflettendo sulla possibilità di abolire le categorie di “attore“ e “attrice“ mutandole in “interprete“ in modo da abbracciare l’inclusività “gender neutral“ (come già accade ai Grammy, agli Independent Spirit Awards o alla Berlinale e al prossimo Festival di Locarno), è però un dato di fatto che il maggior interesse suscitato dagli Oscar 2023 stia proprio nei duelli all’ultimo sangue che si profilano in quelle due precise categorie.
Si dà abbastanza per scontato che nella notte di domenica a Los Angeles a trionfare sarà Everything Everywhere All at Once, l’opera scritta e diretta da Daniel Kwan e Daniel Scheinert (alias i Daniels) che cala nel potente scenario fantascientifico del multiverso, tutto azione wuxia e colpi di scena, il melodramma esistenziale – e l’apologo sul potere salvifico dell’amore – vissuto da una madre cinese immigrata negli Usa e dalla sua famiglia in crisi economica e affettiva.
In Everything... a interpretare la protagonista che nel corso del film, vagando da un universo a un altro, si cala convincente in ogni “genere“ cinematografico possibile – il dramma e il super-action, il musical e il grottesco – è Michelle Yeoh, sessantenne attrice malese di origini cinesi superstar grazie alle sue performace in 007 Il domani non muore mai (1997) e La tigre e il dragone (2000). Ex Miss Malesia, ex ballerina eletta da Rotten Tomatoes la "più grande eroina d’azione di tutti i tempi", da circa vent’anni al fianco dell’ex boss della Ferrari Jean Todt, Michelle ha già in carriera il record di attrice asiatica più pagata, ma se vincesse l’Oscar passerebbe alla storia: sarebbe la prima donna asiatica migliore attrice protagonista. Da che è nato – e ora è alla 95ª edizione – l’Oscar è andato solo alla giapponese Miyoshi Umeki (Sayonara, 1958) e alla sudcoreana Yoon Yeo-jeong (Minari, 2021), e solo come non protagoniste: una lunga storia di emarginazione che ha il suo simbolo in Anna May Wong (1905-1961), la prima star sino-americana, talento straordinario relegato però da Hollywood in uno degli stereotipi più avvilenti del suo lungo impero.
Il duello che Michelle deve combattere è però difficilissimo da vincere: è da quando ha debuttato al Festival di Venezia (ed è stata lì premiata con la Coppa Volpi) che la 56enne Cate Blanchett-direttrice d’orchestra Lydia Tár nel film di Todd Field sugli abusi – pure femminili – di potere e al contempo sull’evidenza di certe assurdità a cui può condurre l’ossessione del politically correct, viaggia a velocità supersonica e destinazione certa al 99,9% verso la sua terza statuetta, la seconda da protagonista, dopo Jasmine di Woody Allen, 2014 (la prima era stato da non protagonista per la sua Katharine Hepburn in The Aviator di Scorsese, 2005).
Anche l’ex divo ragazzino delle serie tv (Hannah Montana, iCarly) Austin Butler ha già quasi in mano l’Oscar da migliore attore per la verità – e la dirompente sensualità – con cui ha messo tutto se stesso dentro l’Elvis di Baz Luhrmann. Talmente tanto se stesso che pure adesso continua a parlare – scatenando non poco l’ironia dei fan – con l’accento di Presley. E c’è di più: nel caleidoscopico biopic Butler non solo incarna fisicamente in maniera magistrale the Pelvis sia nei furori giovanili sia nel crepuscolo finale, ma gli dà anche voce nelle canzoni: se Rami Malek ha vinto quella stessa statuetta come Freddie Mercury senza aver intonato sul set di Bohemian Rhapsody mai neanche mezza nota, il gioco per Austin è fatto e (stra)fatto.
Pur senza sottovalutare il Colin Farrell degli Spiriti dell’isola, l’unico vero 'ma' si chiama Brendan Fraser: il duello è tra loro due, il sex symbol 31enne Butler e l’ex sex symbol oggi 53enne sovrappeso e spelacchiato che prima a Hollywood ha conquistato tutto, poi l’ha perso, e ora è tornato. Dai fasti kolossal della Mummia (’99-2001) Fraser è piombato nella disperazione spinto dal trauma delle molestie sessuali subite nel 2003 dall’ex presidente della Hollywood Foreign Press Association, Philip Ber. Ritiratosi per questo dalla vita pubblica, col matrimonio andato a rotoli, dato per finito, Fraser è letteralmente resuscitato al cinema quest’anno interpretando il prof obeso (un po’ autentico, molto trucco) di The Whale, di Darren Aronofsky. Un film morboso, nel suo compiaciuto spiare in primo piano, ora dopo ora, un uomo che sprofonda nell’abisso della ripugnanza di sé. Ma che proprio (e solo) grazie a Fraser arriva a inondarsi di luce: alla fine, di Brendan non vedi più l’immenso corpo mostruoso, ma solo la sua anima. Che è di una bellezza abbagliante.