Milano, 22 agosto 2023 – Tutti sapevano. E tutti gli avevano dedicato una parola ed un pensiero per quegli ottant’anni compiuti solo un mese e mezzo fa. Salvatore “Toto” Cutugno era nato, infatti, il 7 luglio del ’43 in una frazione di Fosdinovo da un sottufficiale della Marina di origini siciliane con la passione per la tromba, anche se poi il lavoro paterno l’aveva fatto crescere a La Spezia. Oggi s’è spento attorno alle 16 all'ospedale San Raffaele, dov’era ricoverato per l’ultima battaglia con quel tumore maligno alla prostata che teneva a bada dal 2007. Una spada puntata contro che non gli impediva, però, di definirsi “miracolato di Dio”. “Me lo trovarono in fase così avanzata che le metastasi arrivavano già quasi ai polmoni”, ricordava. “Avessero raggiunto entrambi i reni sarei stato spacciato e invece il professor Rigatti del San Raffaele riuscì a ripulire tutto sacrificandone solo uno. Entrando in sala operatoria disse a mia moglie: noi tentiamo, ma l’intervento è molto difficile”. Andò bene.
“Alla mia età il futuro l’accorcio di molto e cerco di vivere soprattutto il presente, provando a combattere innanzitutto la mia atavica pigrizia”, scherzava l’autore de ‘L’Italiano’, approdato nelle cose della musica a metà degli anni Sessanta con formazioni (decisamente) giovanili quali Toto & i Rockers, Ghigo e i Goghi, o quei Toto e i Tati con cui nel ’70 si mise in luce a Un Disco per l’Estate con ‘Questo fragile amore’. Con gli Albatros il cambio di passo. Grazie anche a Sanremo ’76 e a ‘Volo AZ 504’, pezzo-fotoromanzo (con in mezzo un aborto) molto acclamato. “Era Pallavicini, che considero il più grande autore della nostra canzone dopo Mogol, a chiedermi di spingere sul lato melodrammatico della vicenda”, si giustificava. “E chi se lo sarebbe mai potuto immaginare che un testo così dolente, associato ad una musica tipo 007, sarebbe riuscito ad arrivare terzo (ex aequo con ‘Gli occhi di tua madre’ di Sandro Giacobbe - ndr) al Festival?”.
A far diventare Toto-Salvatore una celebrità internazionale, più che i brani portati al successo da Johnny Halladay, Dalida o Iggy Pop (sì, l’Iguana, che volle inserire quella ‘Et si tu ne existais pas’ scritta per Joe Dassin nella sua raccolta di cover francesi “Après”), fu Adriano Celentano rifiutandosi di cantare ‘L’italiano’. La sua canzone-simbolo, enfatizzata da tanti in questo momento (soprattutto a destra) come inno di appartenenza, era entrata fra le proposte valutate dal ‘Molleggiato’ sulla scia di ‘Soli’, altro grande successo firmato Cutugno. “La scrissi nel ’79 a Bora Bora. Assieme ad un amico trovammo un pianoforte usato durante le riprese del kolossal ‘Uragano’ e poi abbandonato al suo destino”, raccontava. “Così lo caricammo su un aereo per portarlo da un artigiano-musicista di Papetee che non solo ne aggiustò la meccanica, ma riuscì nell’impresa quasi impossibile di accordarlo. Tornati a Bora Bora scoprimmo che frattanto era arrivato Dino De Laurentiis e passammo la serata a cantare canzoni napoletane con lui, sua figlia Raffaella, e Silvana Mangano. Dino viveva a Los Angeles, ma era ancora innamorato della sua Napoli e, cantando ‘Voce ‘e notte’, lo vidi piangere”. Celentano? “Rimane il più grande, ma io a tennis l’ho sempre battuto”.
Cutugno riteneva che il segreto del suo successo in Russia fosse nella tonalità di tante sue ballate. Quelle come la stessa ‘Soli’, ‘Il tempo se ne va’ o ‘L’Italiano’, scritte in la minore. Stesso umore, stessa vena malinconica. Se solo avesse accettato l’offerta dei russi d’imbarcarsi su una Soyuz, l’uomo di ‘Solo noi’ sarebbe diventato il primo cantante in orbita della cosmonautica sovietica. E invece ha preferito celebrarne le imprese da quaggiù, cantando sotto i riflettori del Cremlino ad anniversari come quello per i cinquant’anni del volo di Gagarin. “Era il 1985 e a propormi il viaggio spaziale fu Andrej Agapov, il più famoso impresario di concerti russo che quell’anno mi aveva commissionato 15 concerti a Mosca e 10 a San Pietroburgo”, ricordava. “Durante una delle repliche moscovite, scesi in platea come al solito per far cantare il pubblico, scegliendo a caso una ragazza delle prime file e sentii il gelo in sala. Solo a cena Agapov mi disse: lo sai chi hai fatto cantare? La figlia di Gorbaciov!”.
Nonostante il secondo posto, nel 2005 il Sanremo di Cutugno finì con un perentorio “mi sono rotto le balle” a metà conferenza stampa finale. Era fatto così, generoso, un filo malinconico, scontroso. E lo sapeva. “Credo che il cattivo carattere m’abbia rovinato il 50 per cento della carriera, ma non me ne pento, visto che è stato l’altro 50 per cento a permettermi di diventare quel che sono”.