Camicia azzurra, capelli giallo limone. Tilda Swinton ha sempre usato in modo creativo i suoi capelli: li ha tinti di rosso, di biondo, di bianco ghiaccio, di nero. Ma adesso, il significato del giallo acceso con cui si presenta a Venezia è un messaggio politico. "È un onore per me indossare metà della bandiera ucraina", ha detto l’attrice premio Oscar alla conferenza stampa del film di Joanna Hogg The Eternal Daughter, presentato ieri in concorso a Venezia.
Sessantun anni portati da ragazzina, musa dei grandi cineasti (da Jarman, con il quale vinse al Lido nel ’91 la Coppa Volpi per Edoardo II, a Wes Anderson o Guadagnino) Tilda ritrova in questo film la Hogg, sua compagna di scuola in una classe del Kent dove, nel banco accanto, c’era anche Diana Spencer, futura Lady D. The Eternal Daughter è stato girato durante il lockdown, il cast è ridotto al minimo. Mette in scena una scrittrice e la sua anziana madre – entrambe interpretate dalla Swinton – che passano insieme alcuni giorni in un desolato albergo, un tempo dimora di famiglia. Lì, si scambiano segreti tenuti a lungo nascosti. Un film che ha atmosfere un po’ alla Shining – quei lunghi corridoi – e un po’ alla Bergman di Persona. Ma il vero spunto per il film, dice la regista, è un racconto del 1904 di Rudyard Kipling, They, in cui un padre visita una casa popolata dagli spiriti dei suoi figli. Joanna Hogg, la regista, in gioventù studentessa di fotografia a Firenze, spiega: "Questo film è costruito in gran parte sull’improvvisazione, senza un copione scritto. Con Tilda abbiamo parlato a lungo della distanza che separa la generazione delle nostre madri dalle donne della nostra età.".
Doppia sfida per Tilda: il ruolo della figlia e quello della madre, anche se non è la prima volta che l’attrice interpreta più personaggi all’interno di un film, era già successo in Suspiria di Guadagnino. Lei, consacrata tra le prime icone del "doppio" e della fluidità di genere, già con Orlando di Sally Potter, da Virginia Woolf, nel ’92. "The Eternal Daughter – dice la Swinton – parla dell’intreccio di sentimenti fra una madre e una figlia. Occorre capire quanto proiettiamo di noi in nostra madre, e quanto di nostra madre sia proiettato in noi. Realizzarlo è stata un’esperienza inusuale, tenera e ricca. Anche se il film si svolge in un’atmosfera quasi onirica, mi è sembrato reale, perché Joanna ed io abbbiamo lavorato su pensieri e sentimenti concreti, dei quali abbiamo parlato a lungo, da amiche. Siamo entrambe orfane di madre: anch’io ho figli, e fare questo film è stato terapeutico, è importante capire che quando muore una persona provi sì dolore per la mancanza ma la relazione con lei non è detto che si interrompa". La regista aggiunge: "Penso a questo film da 14 anni. A lungo mi hanno fermato i sensi di colpa: adesso, sono dispiaciuta ma allo stesso tempo sollevata dal fatto che mia madre non possa vederlo".
Giovanni Bogani