Roma, 7 novembre 2024 – Se potessi iniettarti “la sostanza” per ottenere una versione di te più giovane e bella, lo faresti? Probabilmente molte donne, munite della consapevolezza derivata da anni di decostruzione della mentalità patriarcale, risponderebbero di no. Che non c’è bisogno di arrivare a tanto solo per rispettare standard irrealistici di perfezione estetica, che quegli standard derivano dal “male gaze” (lo sguardo maschile) che oggettifica le donne, e che ormai sono superati. Tutto vero. Eppure, allo stesso tempo molte donne risponderebbero anche di sì: che varrebbe la pena iniettarsi un siero fluorescente, lasciare uscire dal proprio corpo una nuova, “migliore” versione di sé, e avere la possibilità di abitarla a settimane alterne. E questa è anche la scelta di Elisabeth Sparkle, conduttrice di uno show di fitness televisivo alla soglia dei 50 anni che, proprio il giorno del suo compleanno, viene licenziata. Così inizia “The substance”, l’ultimo grande successo della regista francese Coralie Fargeat, premiato come miglior sceneggiatura al Festival di Cannes e attualmente nelle sale italiane.
Elisabeth, interpretata da Demi Moore, viene licenziata per un unico motivo: per la trasmissione ormai è troppo vecchia. Così, quando un infermiere le suggerisce di nascosto di provare la “sostanza”, lei decide di farlo. Le regole sono semplici. Dopo “l’attivazione” e la nascita del suo nuovo corpo, Sue – interpretata da Margaret Qualley – l’esistenza di Elisabeth si alternerà tra queste due versioni di lei, una settimana per una. Quando Sue vive, Elisabeth è come “ibernata”, rinchiusa in uno sgabuzzino del bagno, e viceversa. Ma le due dipendono l’una dall’altra perché, alla fine, sono la stessa persona. La frase “tu sei unica” riecheggia nella mente delle due donne in più momenti del film, specialmente quando entrambe sembrano volerselo dimenticare. Al contrario di Elisabeth, Sue è giovane, tonica, ha il corpo perfetto per ricoprire quel ruolo che a lei hanno tolto nell’industria dell’intrattenimento. E così fa, diventando il nuovo volto – o meglio, corpo – della trasmissione di fitness. Il suo successo è immediato, e tutti, compreso lo stesso produttore che aveva licenziato Elisabeth, la amano. In poco tempo però, Sue inizia a detestare Elisabeth, il suo corpo vecchio, inutile, che è costretta a lasciare vivere a settimane alterne. Così inizia a rubarle del tempo, alterando l’equilibrio della sostanza e lasciandola marcire nello sgabuzzino. Allo stesso modo, Elisabeth inizia a odiare Sue, ingrata, che la sfrutta di giorno in giorno, trasformandola – letteralmente – in un mostro. Così il personaggio si sdoppia non solo fisicamente, ma anche a livello mentale, sempre più dissociata e ossessionata dalla perfezione estetica, dall’approvazione e dal giudizio degli altri.
Certamente, una persona che sta bene non sceglierebbe di iniettarsi la sostanza e vivere questo tipo di vita. Ma è proprio questo il concetto che “The substance” prende e sviscera, a tratti in senso letterale, nei suoi 140 minuti: ci sono persone che non stanno bene. Ci sono persone, donne, che tanto hanno assorbito stereotipi sbagliati che la società ha fabbricato per loro che, come Elisabeth, pur di trovare approvazione in quello stesso sistema che le condanna, arrivano a odiare sé stesse. Pur di essere quella Sue “perfetta”, si ucciderebbero. Perché l’amore dimostrato dagli altri, per quanto fittizio, sarà sempre più importante di quello che potrebbero dare loro a sé stesse. “The substance” non è un film perfetto, a tratti è forse anche superficiale e certamente non riproduce la complessità della mente femminile. Ma la dimensione che analizza, quella del rapporto che le donne hanno con il proprio corpo e con la percezione che ne hanno gli altri, la analizza nel profondo, e lo fa attraverso la satira, l’esagerazione, il grottesco e l’orrore. Ogni suono viscido è enfatizzato nel sound editing del film, ogni ripresa del corpo di Qualley ripetuta in modo ossessivo, portando gli spettatori a provare quella sensazione di disgusto ed esasperazione che forse solo una donna può provare di fronte alla frustrazione di non poter essere esteticamente ciò che è impossibile essere: perfetta, per sempre.
Attraverso il body horror, e con richiami a grandi classici del genere come “The Shining”, “Videodrome” e “Carrie”, nel film Fargeat estremizza una realtà che già esiste: quella dell’ossessione per la bellezza, della paura di invecchiare, dell’approdo alla chirurgia plastica quando si è ancora adolescenti. Soprattutto, del totale abbandono di come stai dentro, pur di apparire “bene” fuori. Così, il film dimostra quanto per una donna diventi più facile arrivare a odiare sé stessa per la sua incapacità di rispettare standard di bellezza irraggiungibili, piuttosto che odiare il sistema perverso che glieli impone.