
Una scena del film 'Challengers' di Luca Guadagnino
Roma, 13 giugno 2024 – Ci sono due possibilità: o si guarda il tennista o si guarda la pallina (che viene colpita dal tennista stesso). Tertium non datur. È vero si affrontano in due (quattro nel caso del doppio) – che sia sul sintetico, sulla terra rossa o sull’erba poco importa – ma al centro rimane sempre l’Io. E non solo perché è uno sport individuale.
David Foster Wallace – per cui il tennis era una magnifica ossessione – ne scrisse abbondantemente. A iniziare dal mastodontico Infinite jest (pagina 116): "Si compete con i propri limiti per trascendere l’Io in immaginazione ed esecuzione". L’avversario collabora alla danza che si muove per angoli, rette, bisettrici. La trigonometria – i seni e i coseni, citati dallo stesso DFW – è scienza esatta. La cui conoscenza però è fondamentale, per tendere non tanto all’Assoluto ma a immaginare il momento e il posto esatto (tempo e spazio), in cui la pallina può cadere per trasformarsi in punto. Questione di millimetri, talvolta. In una continua e infinita sfida con il proprio Io.
Ha qualcosa di epico, anzi di omerico, il tennis. Ma si porta dietro di sé anche un gusto romantico che non si declina né si esalta (in maniera voyeuristica) con una manciata di vestiti, con abiti sportivi aderenti e performanti. Ci sono meno gradi di separazione di quello che si possa pensare tra l’ultimo film di Luca Guadagnino ‘Challengers’ (uscito alla fine di aprile) e le teorie di Foster Wallace sul tennis. Che il regista abbia letto lo scrittore non è dato a sapersi, ma è probabile. Non è un film sul tennis, ma si parla di tennis, partendo (e rigirandolo ovviamente) proprio sul concetto espresso da DFW: il numero pari, per quanto possa sembrare paradossale, nel tennis non esiste. Nel caso del film di Guadagnino il rapporto è a tre (un’ex tennista – diventata poi allenatrice – e compagna e amante di due tennisti). Il rapporto è inevitabilmente fisico: s’indugia nel film in questa direzione, ma non è poi quella che tiene insieme tutto.
Nel 2006 Foster Wallace fu mandato dal New York Times a seguire Wimbledon: quell’anno in finale arrivarono Rafael Nadal (giovanissimo) e Roger Federer. Ne uscì il saggio Roger Federer come esperienza religiosa. Il pretesto o appunto l’occasione per incontrare il proprio Io. Per fare i conti con il proprio corpo e con i limiti e le eventuali imposizioni da oltrepassare. Che cosa c’è di più omerico, pensando per esempio all’eroe Achille che sa di aver vita breve ma è sprezzante del pericolo: il piè veloce e quel suo tendine, l’unica parte del corpo vulnerabile che Paride colpirà (provocandogli la morte), ma che mette comunque in gioco. In quell’estate di diciannove anni fa Foster Wallace argomenta un concetto che nella sua lingua suona così: bloody near-religious experience. È il momento esatto in cui lo spettatore fa pace con i limiti del proprio corpo perché comprende che c’è qualcuno che riesce "a fare cose con il corpo che il resto di noi si può solo sognare". Sono i campioni che rendono possibile l’impossibile. È la pacificazione dal punto di vista dello spettatore.
Che sia un film o una partita di tennis, dove i corpi si animano, si flettono, si allungano, strisciano (se c’è bisogno, come il Nole Djokovic dei quarti di finale del Roland Garros che resta in campo con il menisco ormai lesionato), non è questo il punto. Ma la corporeità stessa. Che per Guadagnino passa attraverso il sesso, ma anche il sudore, la fatica, la maglietta che s’incolla a petto e schiena (un’armatura postmoderna). Carne, nervi, viscere e legamenti (quelli del ginocchio di Tashi, interpretata da Zendaya nel film di Guadagnino, che si rompono e ne determinano la fine anticipata della carriera). Tutto quello che, in fondo, viene messo sempre in gioco in una partita (di tennis, nel caso specifico) in una relazione o nelle relazioni (come nel film), viaggiando tra sentimenti, emozioni e fatiche da gestire. Ma non da controllare troppo, se davvero ci si vuole mettere in gioco completamente. Restando (per forza) sospesi tra estasi e dannazione. Fu così anche per Foster Wallace, in fondo, che nel momento esatto in cui teorizzò quello che scrisse nel suo saggio, basculò tra l’estasi nel vedere Federer che riusciva a fare cose quasi sovrannaturali in campo con una naturalezza inimmaginabile (i "Federer moments" li chiamava in cui – come accadde anche a lui – allo spettatore scivolavano via i pop corn dalle mani per lo stupore) e la dannazione per quella depressione che continuava a non abbandonarlo. E che solo due anni dopo lo porterà a imporre al suo corpo l’atto più estremo: il suicidio, impiccandosi nella sua casa di Claremont, in California.