Dicono che quando ascoltò Surfer Rosa (1988) dei Pixies, Kurt Cobain indietreggiò e alzò la mano. C’erano Krist Novoselic e Dave Grohl al suo fianco e lui pronunciò una frase del genere: “Mi piacerebbe che un giorno i Nirvana suonassero così”. Quel disco era prodotto da un giovane ragazzo di Pasadena (California), aveva appena 27 anni – l’età giusta per un produttore all’epoca – che si chiamava Steve Albini. È morto oggi a trent’anni di distanza dal suicidio di Cobain.
Era destino che Kurt e Steve un giorno s’incontrassero. Accadde tutto tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993. Dopo Nevermind i Nirvana pensavano di tornare con un nuovo disco. E si era scatenato nella scena indipendente un totomercato sul produttore. Visto che Cobain nel disco di debutto (Bleach) era passato per le mani di Butch Vig (che avrebbe messo le mani anche sui dischi degli Smashing Pumpkins, incurante della rivalità tra Cobain e Corgan motivata dalla gelosia per Courtney Love) cercava un’altra figura cui affidarsi per cambiare completamente prospettiva. Il nome di Albini veniva spesso accostato in quelle settimane a Cobain, ma c’erano state parecchie smentite. Finché Albini non si decise a scrivere una lettera a Cobain. Lettera rimasta inedita fino al 2013 e pubblicata per i vent’anni di In Utero.
Quella lettera è un distillato della filosofia musicale di Albini. "Credo che la miglior cosa che potreste fare arrivati a questo punto è esattamente ciò di cui stavamo parlando: tirare fuori un disco in un paio di giorni, con una produzione poco intrusiva ma di alta qualità, e nessuna interferenza di quelle teste dure ai piani alti – scrisse Albini –. Se è questo ciò che avete in mente, mi piacerebbe un sacco farne parte. Se invece di questi tempi vi trovate a essere parecchio condizionati dalla casa discografica, di modo da sentirvi trattenuti e talvolta strattonati da un guinzaglio (e da cose come obbligarvi a rifare una canzone/un pezzo di essa/il modo in cui è stata prodotta, magari chiamando un tizio assunto da loro per addolcire un pezzo, trasformando il tutto in una stronzata remixata, o cose del genere), beh, state facendo una cazzata nella quale non voglio essere coinvolto”.
Da febbraio s’infilarono in studio – era lo stesso in cui Albini aveva registrato con P.J. Harvey “Rid of me“ – dodici ore di lavoro al giorno: da mezzogiorno a mezzanotte. Con una serie di aneddoti che rendono epocale quella registrazione. La partita di biliardo mai giocata, a esempio, perché Albini sfidò provocatoriamente i Nirvana: “Se mi battete al tavolo verde, lavorerò gratis per voi”. Le stecche e le palline restarono al loro posto. E alla fine Albini si prese comunque un bel compenso: 100mila dollari, la cifra pattuita. A un certo punto delle registrazioni Cobain voleva inserire in un paio di pezzi il suono del violoncello e chiese ad Albini: “Steve, conosci qualcuno?”. E Albini portò la sua fidanzata Kera Schaley che suonò in “Dumb” e “All Apologies“. “Dumb era la mia preferita”, disse qualche anno dopo lei. Nel frattempo il violoncello, fatto di compensato che la mamma le regalò in terza media, è rimasto chiuso per anni nella sua custodia in soffitta e ha accompagnato Kera nei suoi traslochi.
Ma Albini non fu solo un formidabile produttore, a iniziare proprio da In Utero, ma anche un chitarrista della scena noise americana. Che legò il suo nome a Shellac, alter ego con cui sarebbe dovuto uscire a breve con un nuovo disco, e anche ai Big Black, con i quali incappò in una polemica di stampo neofascista, perché fu accusato di simpatie nostalgiche per un 45 giri intitolato Il Duce. Che invece si rivelò per essere una presa in giro di Mussolini.
Lui da sempre contro l’industria musicale e i festival extralarge come il Lollapalooza. Tranchant nei giudizi definì i Nirvana “Rem col fuzzbox” e i Pixies “una band che suona del blando college rock”.
Un altro pezzo (forte) degli anni Novanta se ne è andato.