Qualche anno fa il Mediterraneo fu definito da un gruppo di studiosi, in un rapporto di ricerca, “una zuppa di plastica”. Era un’espressione a effetto, di quelle che colpiscono l’immaginazione, ma non era un’esagerazione. Lanciava un messaggio di allerta massima, dopo anni e anni di analisi e di conferme. Ora un team di ricercatori dell’Università statale di Milano e di Milano-Bicocca rilanciano guardando ai monti: ci sono tracce di microplastiche sul Ghiacciaio dei Forni, nel Parco nazionale dello Stelvio. Sono poliestere, poliammide, polietilene e polipropilene in quantità significative: 75 particelle per chilogrammo, un dato comparabile con il grado di contaminazione osservato in mare e lungo le coste europee.
Le microplastiche sono tanto invisibili a occhio nudo quanto insidiose. Le particelle trovate sulle Alpi, spiegano i ricercatori (che hanno usato zoccoli di legno e abiti di cotone), potrebbero scaturire "sia dal rilascio e dall’usura di abbigliamento e attrezzatura di alpinisti ed escursionisti", sia essere giunte sul ghiacciaio portate da masse d’aria. La scoperta delle particelle sul ghiacciaio non ha sorpreso gli studiosi, per quanto sia la prima volta che viene accertata la presenza di microplastiche in alta montagna. Questo tipo di contaminazione, ricordano i ricercatori, è documentato in molte aree del pianeta, perfino nella profondità oceanica della Fossa delle Marianne.
Le microplastiche sono temute perché potrebbero entrare nella catena alimentare (attraverso pesci e molluschi) con effetti al momento sconosciuti e imprevedibili; c’è chi teme, in aggiunta, che siano veicolo di sostanze tossiche e inquinanti, queste sì certamente nocive per la salute.
I tecnici distinguono fra microplastiche primarie e secondarie. Le une sono rilasciate direttamente nell’ambiente sotto forma di particelle: provengono soprattutto dal lavaggio di capi d’abbigliamento sintetici e dall’abrasione di pneumatici. Le altre, ancora più insidiose, sono l’esito del degradamento di buste, reti, bottiglie e altri oggetti di plastica. La “zuppa” mediterranea, dunque, è inquinante e pericolosa per i pezzi di plastica che disturbano e spesso distruggono la fauna marina, e anche per la scia di particelle che rilasciano.
Tutte le ricerche più recenti dimostrano che i pesci ingeriscono quantità rilevanti di plastiche e microplastiche – pochi giorni fa una femmina di capodoglio trovata morta in Costa Smeralda aveva 22 chili di plastiche nello stomaco (buste, pezzi di tubo e di piatti, fra le altre cose) – ma non ci sono prove scientifiche di eventuali conseguenze per chi mangi pesci “contaminati”. Per questa ragione, probabilmente, l’allarme lanciato parlando di “zuppa di plastica” non ha raggiunto i massimi livelli. Non è escluso però che nuove ricerche raggiungano presto conclusioni spiacevoli.
Di certo, combattere contro plastiche e microplastiche è molto impegnativo. Gran parte dei materiali ritrovati in mare (circa il 75%) proviene dall’entroterra: una cartina, un bicchiere, una cicca buttati e lasciati a terra, anche in montagna, sono tutti destinati a finire in mare. Di recente l’Unione europea ha approvato una direttiva che proibisce l’uso di prodotti in plastica usa e getta a partire dal 2021. È qualcosa, ma ancora troppo poco rispetto alla gravità dell’inquinamento. Oltretutto per salvare i nostri mari servirebbe un forte coordinamento con tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, anche quelli della sponda meridionale. Coordinamento che al momento è troppo debole.
La verità è che la plastica, materiale straordinariamente utile, robusto e duraturo, si sta rivelando una sorta di maledizione. È subdola e quasi imbattibile. Sale anche sui ghiacciai.