
Mauro Corona, 74 anni, scrittore, alpinista e scultore
Milano – “Sono stato partorito sul carretto dei miei, venditori ambulanti, per le strade di montagna. Era il 1950... Tutti i genitori si preoccupano quando i figli non tornano la sera, mio padre si preoccupava quando tornavo... Mia madre l’ho vista saltare su un furgoncino rosso: avevo 6 anni, tornò che ne avevo 13. Scappò per salvarsi la pelle. Mio padre la picchiava, è andata in coma tre volte...”.
Lo scrittore Mauro Corona non risponde subito al telefono. Poi ci ripensa: “Non rispondo mai a numeri sconosciuti, deve ringraziare la persona che è qui con me”. Un inizio ‘in salita’ per poi finire “con una chiacchierata che è stata onesta e pulita”. Corona è il protagonista del docufilm “La mia vita finché capita” di Niccolò Maria Pagani, in uscita al cinema il 5 maggio con Wanted, dopo essere stato in anteprima mondiale al Trento Film Fest. In occasione del film Corona ha aperto la sua “tana” (ad Erto in Friuli) al pubblico. Una lampadina pende su un tavolo da falegname, tutto attorno utensili, pezzi di legno accatastati, libri ovunque, un bicchiere di vino. La stufa accesa. “Nella mia tana bisogna muoversi con tenerezza”, dice.
Lei dorme su una panca di legno su un materasso sottile e due coperte.
“Si, non amo le comodità, le comodità impigriscono. E mangio solo quando ho fame. Sono essenziale, non ho bisogno di altro”.
Sul grande schermo il ritratto intimissimo di un uomo controverso e profondo, burbero e malinconico che si racconta. Il regista Pagani, presente all’anteprima, ha spiegato: “Per girare il film ho lasciato Milano e mi sono trasferito 6 mesi nel villaggio di Erto Vecchia”.
Corona, parliamo del film.
“Mi dica una cosa: è bello o no? Io sono un uomo molto onesto, non mi sono mai piaciuto. Ho ottenuto quello che avrei voluto da giovane: un po’ di notorietà, ma adesso mi sta pesando. Vorrei fare la risacca di me stesso e restare fra i miei monti”.
I monti dove incontra anche qualche amico, come abbiamo visto nel film: lo scrittore Erri de Luca e poi Davide Van De Sfroos e Piero Pelù (le musiche sono di Omar Pedrini).
“È stata una scelta del regista, sapeva che ero amico di queste persone: ci lega la fragilità che non abbiamo mai dimostrato se non cantando o scalando montagne”.
La voce di Giancarlo Giannini narra luoghi e situazioni.
“Lo conobbi a Torino e mi chiese una foto, allora gli ho risposto: ‘Sono io che chiedo una foto a lei’, e mi offrì una sigaretta. Fu un bell’incontro”.
Lei è autore di una quarantina di libri e best sellers, volto noto in tv grazie a “Carta bianca” con Bianca Berlinguer. Commentatore sarcastico con le sue sfuriate e opinioni senza filtri.
“Scrivi 40 libri, scali montagne, fai lo scultore ma non esisti. Vai a fare il pagliaccio in tv e diventi famoso”.
Scenderà “a valle” per presentare il film.
“Per rispetto al regista e al mio agente letterario verrò a Milano il 15 all’Anteo. Entrare nella sala a fare il pavone non mi va. Dirò solo due parole ma non assisterò al film. Poi la sera sarò con la Berlinguer”.
La montagna è l’altra protagonista della pellicola: nella natura e nella fotografia “accecante” delle valli e dei ghiacciai immacolati lei parla della sua storia legata al territorio e alla tragedia del Vajont.
“Ho scritto un libriccino che si intitola: ‘Vajont, quelli del dopo’ dove ho detto le ‘verità cattive’. Poi sono arrivati gli esperti, anche gente che non era nemmeno qui quella sera”.
Oltre ad essere uno scrittore lei si definisce scultore e scalatore. Cominciamo dallo scrittore. Ha detto che quando scrive non va mai a capo “per non lasciare sole le parole”.
“Si chiama horror vacui, orrore del vuoto. Riempio le pagine scrivendo fittissimo. Anche quando lavoro il legno, non lascio un millimetro libero. Lo scalatore? C’è una bella frase del mio amico Manolo: avevo paura del vuoto finché l’ho vinto fino a farne un punto d’appoggio. È il destino di chi vive in verticale”.
La sua adorata montagna.
“È stata come una farmacia dove comprare le garze per le ferite e le medicine per aiutarmi a campare”.
Nel film dice: “Lavoro per non spararmi”…
“Antonin Artaud che morì in manicomio disse: nessuno ha mai dipinto, fatto musica, cantato se non per uscire di fatto dall’inferno. Io faccio delle cose per non pensare alla paura della morte, delle malattie. Lo fanno tutti, in fondo, ma nessuno ha il coraggio di dirlo, nessuno dice la verità”.
Questo scetticismo verso gli altri.
“Mi trovo malissimo in un mondo che non dice la verità all’altro. La Rochefoucauld nel 1720 diceva: nelle disgrazie dei nostri amici c’è sempre qualcosa che non ci dispiace affatto. Aveva ragione. Non sopporto chi ti dice: ‘Ciao come stai?’. E in realtà magari non vede l’ora che crepi”.
Sul grande schermo i ricordi legati alla sua famiglia. E anche l’incomprensibile violenza in casa.
“È stata dura. Eravamo orfani con i genitori viventi. Mia madre l’ho vista sorridere solo in una foto: quella che poi ha sulla sua tomba. L’unica volta che ride è nella foto della morte. Non avevamo la coscienza di capire questo dolore. Il dolore arriva adesso che ho la coscienza di quello che abbiamo passato gratuitamente”.
Lei ha quattro figli. Che rapporto ha?
“Bellissimo: ho insegnato loro a camminare, a sciare, ad amare la natura. Sono felice quando mi dicono che stanno bene, che sono sani”.
Che società vede fuori dalla sua tana?
“La società siamo noi. Confusa e bombardata dalla tecnologia, dai social, dai media. I social? Ma uno che chiede l’amicizia sui social: ma che c.... chiedi l’amicizia! L’amicizia??? Ma di che parliamo”.
Nella scorsa puntata di “È sempre Carta bianca” è apparso con un bicchiere di latte.
“Ho avuto molte difficoltà col vino. Ma adesso sto cercando la quiete... ma non perché mi hanno ritirato la patente... È che l’alcol tira fuori l’aggressività. Sto cercando di combattere col demonio. È una partita persa ma almeno provo a battagliare”.
“La nostra vita è un romanzo dell’esistenza: un po’ la fa il destino e un po’ noi”.
“E arriva la vecchiaia: avere una certa età vuol dire avere un’età incerta. Arrivano dubbi, insicurezze. La vecchiaia è la voglia di stare fermi”.
“E le radici sono prepotenti”.
“Le radici sono elastiche, ti riportano prima o poi da dove sei venuto. Si allungano ma non si rompono. Si tendono e diventano sottilissime ma se molli la presa con un colpo - bam - ti riportano a casa”.
Cade la linea, risponde di nuovo…
“Ho parlato con il cuore. Io ho fatto molti errori fino ad ora ‘ma non tutti’, come diceva Borges, ‘perché tutti sono tanti’. Ero convinto di essere nel giusto.
E quell’epitaffio beffardo che ha scritto…
“’Qui giace Mauro Corona, uomo iniquo e perverso. Pregare per lui, è tempo perso’”.