Giovedì 30 Gennaio 2025
ALBERTO MATTIOLI
Magazine

Sognare nell’evo della Suscettibilità. Emilia Pérez è come la Spagna di Bizet

Il film attaccato da messicani e Lgbtq+ per caricaturalità e semplicismo. Ma nel musical (e nella musica) è lecito “inventare il vero“

Zoe Saldana in una scena del musical di Audiard Emilia Pérez

Zoe Saldana in una scena del musical di Audiard Emilia Pérez

Quattro Golden globe già vinti e chissà quanti Oscar, visto che le candidature sono addirittura tredici, record per un film non in inglese. Una, però, già "storica", perché Karla Sofía Gascón è la prima trans nella cinquina per la miglior attrice. E poi nove minuti di applausi a Cannes, recensioni assai buone con punte di entusiasmo, undici candidature anche ai Bafta e dieci ai Césars e più di undici milioni di dollari di incassi (finora).

Si tratta ovviamente di Emilia Pérez di Jacques Audiard, storia di un boss della droga messicano, Manitas, che si è sempre sentito donna e quindi decide di diventare, appunto, Emilia. Detto fatto, salvo poi dedicarsi alla ricerca dei numerosi morti ammazzati (anche da lui) desaparecidos nel Paese e spacciarsi per la zia dei figli che aveva avuto quand’era un uomo. È già abbastanza bizzarro così: il tocco di ulteriore follia deriva dal fatto che si tratta di un "narco musical", quindi quando meno te l’aspetti killer, giudici, avvocati, chirurghi, politici corrotti e semplici messicani di passaggio si mettono a ballare e cantare, fra l’altro su musiche niente affatto brutte e coreografie decisamente belle. Il soprascritto non ha alcuna competenza per giudicare un film: a me è piaciuto, ma chissenefrega, come si esprimerebbe la ministra Santanché, me lo dico da solo.

Però è interessante perché segnala un paio di paradossi della nostra sgangherata contemporaneità. Il primo. Emilia Pérez è un film dove la correttezza politica sposa il tradizionale ottimismo redentore di Hollywood (benché poi regista e produzione siamo francesi), per cui il feroce narcotrafficante diventa una signora che trabocca di quello che Shakespeare chiama "il latte dell’umana tenerezza". E tuttavia ha irritato molte delle categorie interessante. La comunità Lgbtq+, mi scuso se ho dimenticato qualche consonante, ha criticato il modo semplicistico con cui è raccontata la transizione del protagonista. Alcuni messicani, il fatto che il loro Paese sia visto in maniera stereotipata, che nel cast ci messicani veri ce ne sia una sola, che il castigliano di Selena Gomez, che fa la moglie di Manitas, sia discutibile e insomma che il Messico del film non sia abbastanza messicano. Altri invece lo accusano di esserlo troppo e di dare un’idea truculenta fino alla caricatura di un Paese che, si direbbe, che non fa bene alla salute. Insomma, come certi siciliani che, al tremilionesimo film di mafia, fanno presente che in Sicilia ci sarebbero anche il barocco o le cassate.

Viviamo nell’evo della Grande Suscettibilità. Il politicamente corretto è un cane che si morde la coda, e per ogni minoranza che viene gratificata di attenzioni e inclusività ne spunta sempre un’altra, generalmente anche più rumorosa, che protesta. Risulta quindi una pessima idea aver trasformato motivazioni moralistiche in giudizi estetici. Poi c’è un secondo paradosso, che riguarda invece l’arte e le sue ragioni, che non sono né di ieri né di oggi ma sempre di domani. Non solo "cosa" racconta il film è inverosimile fino all’assurdo, ma anche "come" lo racconta. Il musical, al cinema, è servito per lo più per storie leggere, dove alla fine l’umile segretaria sposa il miliardario golfista, o per variazioni su temi consolidati, tipo West Side Story, un Romeo e Giulietta nell’Upper West Side invece che a Verona. Il rischio di una sospensione dalla realtà, anzi di una realtà irreale, in effetti c’è. Eppure ci si crede.

Emilia Pérez ottiene un risultato che un altro che con la musica se la cavava discretamente, Giuseppe Verdi, chiamava "inventare il vero". Il parallelo che è venuto in mente a chi scrive, che a differenza di cinema qualcosa d’opera sa, è Carmen di Bizet (e poi sempre "latinos" sono, alla fine). Nella musica di Carmen c’è nulla di propriamente spagnolo, nemmeno la celebre Habanera che infatti in francese si chiama Havanaise, dunque semmai cubana in quanto dell’Avana, e che Bizet scippò, confessandolo, a un altro compositore che si chiamava Sebastian Iradier.

E tuttavia Carmen, pur non avendo nulla di spagnolo, ne è diventata un’icona. Non è più Bizet che racconta la Spagna: è la Spagna che diventa come Bizet l’ha raccontata. L’invenzione del vero, appunto. Per cui possiamo serenamente commuoverci alla storia di un narcos che diventa donna e poi quasi una santa, e oltretutto lo fa cantando.