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Lucio Corsi nell'abito di Sanremo, che si è cucito da solo e ha già utilizzato in altri concerti
In questi tempi di commenti feroci e di marce militari, di giornate incerte e di capi di governo che urlano dai seggi, di perfezione ostentata e di machismo stereotipato, l’apparizione di Lucio Corsi a Sanremo è un piccolo miracolo. “Volevo essere un duro” è un balsamo, una lettera scritta a grafia leggera che celebra la vulnerabilità e l’accettazione di sé. Tutto senza un briciolo di retorica. Corsi è sincero col pubblico. E il pubblico, nel sorridere davanti a un giovane con gli occhi truccati di nero, è sincero con lui.
“Volevo essere un duro” è un’ode alla fragilità umana in un periodo storico che esige potenza, un racconto intimo che esplora il desiderio di apparire invincibili in un mondo che vuole eccellenza e inflessibilità. Corsi confessa il suo aspirare a essere un “duro”, solo per rendersi conto che tale maschera è insostenibile. Questa consapevolezza lo conduce a un’accettazione serena della propria essenza, abbracciando le proprie paure e debolezze come tratti distintivi dell’umanità.
In un’intervista, l’artista ha detto che la canzone “parla di quanto il mondo ci vorrebbe infallibili, con la solidità dei sassi e la perfezione dei fiori, senza dirci però che tutti i fiori sono appesi a un filo”. Insomma, ci sta dicendo che possiamo lasciarci alle spalle quelle facciate di forza che abbiamo costruito per conformarci alle aspettative sociali. Che possiamo sbagliare e che va bene così. Che siamo diversi e che va bene così.
È uno di quei rari messaggi la cui verità non ha bisogno di dimostrazione. E Corsi sembra parlare soprattutto alle anime che vivono fuori dal cerchio, al margine. Una giovane madre ha gli scritto questo messaggio, su Instagram: “Lucio, mio figlio di 9 anni con mutismo selettivo oggi mentre andavamo a scuola con la tua canzone in macchina dal sedile posteriore ha per un attimo canticchiato a bocca chiusa la melodia. Finora era successo solo con un’altra canzone anni fa. Grazie per questa magia”.
Sarebbe sufficiente l’apologia di un bambino, per dare una dimensione alla tenerezza che Corsi ha riservato al palco dell’Ariston, sera dopo sera, con quel corpo apparentemente fragile e la maestria di uno che sa benissimo come calcare le scene e usare gli strumenti del mestiere (si è fatto, d’altronde, tutta la gavetta). Corsi è uno che agli abiti scintillanti presentati a Sanremo dalle grandi case di moda preferisce un costume che si è cucito da solo e che ha già indossato in altri concerti. Non c’è finzione. Né spocchia. Sennò col cavolo che si presentava con Topo Gigio.
Personalmente lo conobbi (musicalmente) quattro, forse cinque anni fa, quando un mostro sacro come Francesco Bianconi – quello dei Baustelle – ne accennò in un’intervista come al migliore cantautore emergente italiano. E se uno come Bianconi parlava così di qualcuno, era il caso di dare un’occhiata. In quel periodo era scoppiata la pandemia, tutti avevamo tempo da perdere e Corsi aveva appena pubblicato l’album “Cosa faremo da grandi?”, un inno visionario alla libertà, tra fiabe surreali e paesaggi onirici, dove il sogno e la realtà si fondono in un viaggio verso – già allora – l’autenticità. Brani come “Trieste” e “Freccia Bianca” erano qualcosa davanti a cui fermarsi e, finalmente, respirare. C’è da essere felici che a conoscere Lucio Corsi, adesso, siano milioni di italiani. Soprattutto “quelli normali, che hanno poco amore intorno o troppo sole negli occhiali”.