di Francesco
Perfetti
Giuseppe Prezzolini è stato protagonista e testimone di un secolo distillando, sempre, pillole di buonsenso e saggezza politica. La sua vita è stata straordinaria e irripetibile sia per gli incontri avuti con personalità eccezionali, sia per il ruolo svolto nel panorama culturale internazionale, sia ancora per le decine di libri e per le migliaia di saggi e articoli destinati, quasi sempre, a non cadere nell’oblio. Attorno alla sua figura si è creata un’immagine di uomo burbero e scontroso, di carattere difficile: un’immagine, in qualche modo da lui stesso avallata, con un pizzico di narcisistica civetteria, ma – per chi, come me, lo ha ben conosciuto – ingannevole. Era invece uomo generoso, cordiale, affabile e anche modesto.
Una volta – vicino ai cento anni – disse a me e a Claudio Quarantotto parole significative: "Dovete farmi una promessa. Continuo a scrivere perché la scrittura è la mia vita. Quando dalla mia penna uscirà qualche “corbelleria” avvertitemi e io smetterò di scrivere. Ve lo chiedo proprio perché siete amici e so che nessun altro – né mia moglie, né i direttori, né i colleghi – me lo farebbero notare, per rispetto o compassione". Naturalmente non ci fu bisogno di avvertirlo. Prezzolini rimase lucido, lucidissimo fino all’ultimo.
Ho ritrovato tutto Prezzolini, come intellettuale e come uomo, in un bel volume biografico, Giuseppe Prezzolini l’anarchico conservatore (Mondadori, 2023), scritto con profonda empatia, da Gennaro Sangiuliano che qualche anno fa curò, dello stesso Prezzolini, la riedizione del Manifesto dei conservatori (Edizioni di Storia e Letteratura). Il libro ripercorre tutto l’arco della vita dello scrittore dalla fervida stagione delle riviste fiorentine estetizzanti dell’inizio del secolo (Lacerba, Il Regno, Hermes) a quella del suo volontario esilio in Francia e negli Stati Uniti e, infine, a quella del rientro in Italia e degli ultimi anni trascorsi in Svizzera. Sangiuliano sottolinea come le diverse fasi della vita di Prezzolini siano state caratterizzate da una "coerenza" sostanziale, frutto, per un verso, del suo carattere di "bastian contrario" che lo portava a simpatizzare con le minoranze e le posizioni anticonformiste e, per altro verso, di una cupiditas sciendi che lo spingeva a guardare con attenzione critica e curiosità intellettuale ma, anche, con sereno distacco quanto avveniva intorno a lui.
Il nome di Prezzolini rinvia subito, però, a La Voce, la più importante rivista culturale europea del ’900, capace di sprovincializzare il mondo culturale italiano. Fu una rivista di “idealismo militante“ che faceva riferimento al pensiero di Benedetto Croce, prima, e di Giovanni Gentile, poi, con aperture alla grande cultura europea e al pragmatismo americano. Sulle sue pagine si ritrovarono intellettuali d’ogni tendenza, talora in polemica fra di loro. In particolare, per usare una battuta di Curzio Malaparte, fu "la serra calda del fascismo e dell’antifascismo". Lì si formò "il mito di Mussolini" e ad essa, pure, si richiamò l’antifascista Piero Gobetti. In un certo senso, Mussolini fu davvero "un vociano al potere", ma Prezzolini, pur conservando, come rileva Sangiuliano, "intatta una certa ammirazione" per lui, non volle mai chiedergli nulla e scelse di vivere all’estero, non già da “fuoruscito“ ma da italiano, innamorato del suo paese e impegnato a diffonderne il patrimonio culturale.
Non è facile attribuire una etichetta al pensiero politico di Prezzolini, ma la definizione di "anarchico conservatore", contenuta nel titolo della biografia, coglie nel segno nella misura in cui essa è assunta come sinonimo di “uomo libero“ e indipendente da ogni condizionamento. Prezzolini era convinto, come osserva Sangiuliano, che "l’istinto di conservazione è più forte nell’uomo del desiderio di cambiamento" e che anche "chi provoca o fa una rivoluzione, appena ottenuto il suo scopo, diventa un conservatore". Per gli anarchici – naturalmente per gli anarchici “storici“ e non già per certi epigoni anarcoidi imbevuti di radicalismo rivoluzionario – nutriva qualche moto di simpatia perché in essi vedeva quanti "amano troppo la loro indipendenza individuale". La sua fu, peraltro, una posizione condivisa, in maniera più o meno consapevole ed esplicita: da Giovanni Ansaldo a Mario Missiroli, da Leo Longanesi a Indro Montanelli che volle, anch’egli, autodefinirsi "anarco-conservatore".