Venerdì 22 Novembre 2024
GIOVANNI BOGANI
Magazine

Roberto Vecchioni: "Scrivo ancora a mano. L’amicizia con Guccini iniziò bevendo whisky"

Ottant’anni (e 50 di carriera): “L’intelligenza artificiale non fa per me, imparo a memoria le mie canzoni e poi le metto giù in un foglio bianco”

Roberto Vecchioni al Festival di Sanremo 2011

Roberto Vecchioni al Festival di Sanremo 2011

"Come mi sento? Se mi guardo indietro, mi accorgo di avere scalato una montagna difficilissima, senza concedere mai niente. Ho il pubblico che volevo: quando canto, mi sento fra amici. In questi cinquant’anni e passa che faccio questo mestiere, quello che è cresciuto è il mio rapporto di emozioni con il pubblico". Roberto Vecchioni, che ha da poco compiuto 80 anni, è lombardo, ma un lombardo napoletano: il papà di San Giorgio a Cremano, lo stesso paese di Massimo Troisi, la madre del Vomero.

Vecchioni, vogliamo cominciare proprio da qui? Da quelle origini, in quel paese dove è cresciuto Massimo Troisi? Vi siete conosciuti?

"Eravamo abbastanza amici, ci siamo divertiti a chiacchierare, a fare qualche camminata insieme, a vedere il golfo di Napoli insieme. Era un uomo indifeso, indifeso davanti alla vita. Mi colpiva come showman geniale, e insieme come uomo pieno di dubbi, di preoccupazioni. Pensava che io fossi un saggio, mi diceva ‘tu che hai letto tutti quei libri’… Ma la saggezza di tutti i classici non serve a vincere certe malinconie".

Tanti anni da professore di italiano, greco e latino, al «Beccaria» di Milano, poi sul lago di Garda. Centinaia di canzoni, alcuni romanzi pubblicati. E adesso non si parla che delle nuove tecnologie, di intelligenza artificiale, algoritmi che scriveranno al posto nostro. Lei che sentimenti prova?

"Semplice: non ho mai provato l’intelligenza artificiale. Ma le dirò di più: non uso praticamente neppure il computer".

Lo userà per scrivere i romanzi…

"Macché! Scrivo i romanzi a mano, e anche le canzoni. Anzi, gran parte delle volte le canzoni le imparo a memoria, prima di buttare giù il testo. Per i romanzi, si tratta di centinaia di pagine scritte a mano. Qualcuno dei miei manoscritti l’ho lasciato alla casa editrice Einaudi, altri stanno in qualche cassetto".

Come nacque il suo rapporto con la musica?

"Iniziai a studiare la chitarra. Il maestro mi disse: ‘Tu la musica non la capirai mai’. E in effetti, la chitarra mica la suono bene. Ma quei quattro accordi mi bastarono per pagarmi gli studi: cantavo il cabaret, e scrivevo canzoni per altri".

Dove faceva cabaret?

"Nei locali di Milano. Al Derby conobbi tutti. Diventai amico di Paolo Poli e di sua sorella Lucia. Intanto scrivevo canzoni, per Gigliola Cinquetti, per Ornella Vanoni. Era un periodo di grande euforia, si lavorava tanto".

La storia di ‘Luci a San Siro’ è molto bizzarra. Prima uscì un’altra canzone, ‘Ho perso il conto’, con la stessa musica. La cantava Rossano. Come andò la storia?

"Alt! Uscì prima ‘Ho perso il conto’, ma la scrissi dopo. ‘Luci a San Siro’ l’avevo già scritta nel 1968, durante il servizio militare. La ragazza era bellissima: lei aveva 18 anni, io 23. La sera che parto militare, lei mi pianta. E io scrivo quella canzone, con il mio commilitone Martini sulla branda sotto la mia. Tre anni dopo, Rossano, un cantante calabrese, aveva bisogno di una canzone. Ma mi dissero: ‘Devi scrivere un altro testo’. Lo scrissi, andò al Festivalbar, ma non fece successo. Così mi riappropriai della mia prima canzone. E quella canzone, scritta per un dolore bruciante, è diventata il più grande dono per me".

Mezzo secolo di carriera. Quali sono stati i momenti difficili?

"Paradossalmente, sono venuti con l’amore: l’amore grande e forte per mia moglie Daria. Capita che quando succede una cosa del genere, ti scende l’ispirazione. Negli anni ’80 ho fatto più fatica a scrivere canzoni. Poi ho ritrovato l’equilibrio".

E in positivo, che cosa le ha dato il rapporto con Daria?

"Tutto. Sicurezza, certezza, passione, amore. Qualche dispetto. La difficoltà spaventosa di tenere insieme quattro figli. Mille dialoghi, non sempre facili. È una donna di una intelligenza favolosa. Ha tenuto duro, nonostante io sia a 360 gradi lavoro, lavoro, lavoro…".

Sua figlia Francesca dirige un festival dedicato a tematiche Lgbt. Un lavoro prezioso.

"Sì: perché c’è da cambiare la testa di noi maschi. Non c’è nessuna differenza di valori fra maschi e femmine, e non bisogna avere paura di chi ama in qualsiasi modo. Non c’è un modo ‘diverso’…".

Francesco Guccini. Siete amici, ognuno invidia all’altro qualche canzone. Ricorda il primo incontro?

"Di fronte a due bottiglie di whisky, a un premio Tenco. Abbiamo straparlato fino a mattina. Di cosa? Ah, chi lo sa".

Una cosa di Guccini che gli altri non sanno?

"Tutti lo conoscono come cantautore politico: non vedono che è un romantico fino al midollo".

La canzone che gli invidia? "Canzone della bambina portoghese. L’incontro con l’infinito, sfiorato e poi dimenticato. E poi ‘Incontro’, ‘Bisanzio’, tante altre".

La canzone, fra quelle che ha scritto lei, che la tocca più da vicino?

"Forse ‘La viola d’inverno’. Amare una donna, e non sapere come dirle che stai morendo. Poi chiederle ‘tienimi la testa’, in quel momento in cui sei completamente solo".

E la passione per l’Inter. Da che cosa fu scatenata?

"Per reazione contro mio padre, che mi portava a vedere il Milan. Quando ho vinto Sanremo, il primo a farmi una telefonata è stato Javier Zanetti".