"Sono tanti ottantacinque. Sono lunghi anche da pronunciare: ot-tanta-cinque. Ma come si fa? L’ho già detto altre volte, sono arrivato quasi al novantesimo. Poi, se avrò fortuna, farò i supplementari e magari anche i rigori. Ho vissuto tanto, ma se dovesse finire adesso mi dispiacerebbe, perché non ho fatto in tempo a fare tante cose".
Oggi è il compleanno di Lino Banfi, anche se l’anagrafe segna un’altra data di nascita, l’11 luglio del 1936. All’epoca si usava così: si segnavano le nascite con qualche giorno di ritardo. Portava bene, dicevano. E infatti ha portato bene a Pasqualino Zagaria. Futuro seminarista pentito, parcheggiatore abusivo, ventenne poverissimo che dormiva nelle stazioni, sempre inseguendo il sogno di fare l’attore. E poi, nel cinema degli anni ’70, professore, preside, medico, marito, amante, allenatore nel pallone.
Lino, come si vede oggi?
"Io non mi vedo più. Non mi guardo più, perché non mi piaccio più da trent’anni. Sono ingrassato, sono imbruttito. Ero un bel ragazzo, una volta".
La cosa di cui è più orgoglioso?
"Il fatto che tre generazioni di italiani mi abbiano voluto bene. E forse arriva anche la quarta, se riesco a resistere".
Qual è il segreto di tanto affetto?
"Le persone mi vedono come uno di loro, non come un ‘attore’, ma come una persona vera, che dice le cose con semplicità".
La storia della sua vita è anche una storia di riscatto, di conquiste ottenute piano piano. Come inizia il racconto della sua vita?
"Mio padre era un contadino, un uomo buono e altruista, ma non certo portato a capire le ragioni di un ragazzo che vuol fare l’attore. Va bene, vuoi fare l’attore, mi diceva. E dopo un attimo mi diceva: ‘Sì, ma come professione, che cosa vuoi fare?’. E io: l’attore, papà! Non riusciva a capire".
Così si trovò a sparire letteralmente di casa, per seguire compagnie di spettacolo…
"Sì, seguivo le compagnie di varietà, finivo ad Ancona, a Rimini. Mio padre chiamava i carabinieri, preoccupatissimo. Ma alla fine si è arreso al sogno folle di suo figlio".
Ha vissuto anche momenti di precarietà estrema?
"Diciamo pure di povertà assoluta. Dormivo nelle stazioni ferroviarie, nei palazzi in costruzione".
Era difficile mettere insieme il pranzo con la cena, come si dice.
"Ero campione olimpionico di salto del pasto, avevo il record mondiale".
Che cosa ricorda di quegli anni in certo modo eroici?
"I ristoranti, quei pochi nei quali riuscivamo ad andare. Ricordo un ristorante a Firenze, si scendevano degli scalini e si finiva in una grande sala. C’era da una parte Wanda Osiris con le sue ballerine, avevano finito lo spettacolo anche loro. Ricordo un piatto di fagioli all’uccelletto abbondanti, una zuppa con il peperoncino: mi sentivo in Paradiso".
Che cosa le hanno insegnato gli anni dell’avanspettacolo?
"L’umiltà e la generosità. Non avere una lira in tasca ti spinge a diventare altruista: impari a dividere tutto con i disgraziati come te".
Fu accolto, poi, da Franco e Ciccio. Ebbe un ruolo anche nel film che i due comici fecero con Buster Keaton, arrivato alla fine della sua carriera, Due Marines e un generale.
"Non so come fecero a convincere Buster Keaton a fare quella partecipazione. Non diceva niente per tutto il film, soltanto alla fine si voltava e diceva ‘Thank you!’, grazie. Ecco, quella fu la prima volta in cui lavorai accanto a una leggenda".
Il momento più felice della sua vita?
"Il matrimonio con mia moglie Lucia. Fummo costretti a celebrarlo di nascosto, perché avevamo fatto la famosa ‘fuitina’, eravamo scappati di casa. La amo oggi come la amavo allora".
Quanti anni avevate, quando vi incontraste?
"Io ero vecchio: avevo ben quindici anni! E lei tredici. A me piacque immediatamente; anche lei, però, mi trovò carino. Sa, da giovane sono stato carino anch’io. Non bello, questo no. Ma con tutti i capelli in testa non ero male: ho fatto anche dei fotoromanzi!".
Che cosa dice sua moglie della sua carriera?
"Beh, quando vede che mi chiamano i giornalisti dice: ‘Vedi, Lino, stai facendo ancora una bella carriera…".
Negli anni ’70 ha interpretato una serie infinita di film con Edwige Fenech, Gloria Guida, Nadia Cassini. Film con insegnanti, liceali, soldatesse, infermiere. Che ricordi ne ha?
"Fu un momento, a suo modo, glorioso. Tanti film che celebravano un erotismo che oggi sarebbe infantile, ingenuo: L’insegnante va in collegio, La liceale nella classe dei ripetenti… Spesso erano film ambientati nella scuola. E io, film dopo film, ho fatto carriera!".
Nel senso di ruoli sempre più importanti?
"No, nel senso che ho cominciato interpretando un bidello, poi vari insegnanti, e ho finito a fare il preside. Ancora un film e diventavo Ministro dell’istruzione!".
È rimasto amico con Edwige Fenech e con Gloria Guida?
"Molto: con Edwige ci sentiamo spesso, anche se lei vive all’estero da anni. E con Gloria ridiamo, ripensando a quei film Una volta mi disse: ‘Li chiamano ‘sporchi’, quei film che abbiamo fatto. Ma se facevamo quattro docce al giorno!’. Avrei voluto rubarle la battuta. Ma è sua".
Passando a cose più "serie", quale rapporto ha con la fede? Ha un passato da seminarista. Ha conservato il rapporto con la religione?
"Sì, ho una profonda religiosità mia: in chiesa non vado spesso, ma lo faccio per non disturbare. Se la gente vede me, si distrae dall’unica cosa importante, in quel momento lì: il rapporto con Dio".
Una cosa, al di fuori del cinema, di cui è orgoglioso?
"L’impegno come ambasciatore dell’Unicef. Sono stato molte volte in Africa, e qualche volta sono riuscito a vedere dei bambini sorridere. Un giorno ho visto dei bambini angolani sotto un temporale, che coprivano dalla pioggia non la testa, ma un braccio. Era il braccio che teneva i quaderni, i quaderni che permettevano loro di imparare, di integrarsi, di costruire un futuro".