Martedì 6 Agosto 2024
MATTEO MASSI
Magazine

Raboni & Bene: quando il calcio era l’imponderabile

Lo stadio, il tifo, i campioni, i gol, l’Inter e il Milan: nelle parole e nelle riflessioni dei due intellettuali quei 90 minuti diventavano poesia

Giovanni Raboni

Giovanni Raboni

Roma, 6 agosto 2024 – Chissà che cosa direbbero ora Giovanni Raboni (1932-2004) e Carmelo Bene (1937-2002) dopo che anche Novantesimo minuto non andrà più in onda la domenica pomeriggio. Si è persa così la sacralità di una liturgia laica, minata da quel calcio-spezzatino per cui si gioca ogni giorno, vanificando l’attesa leopardiana (da “Sabato del villaggio“) per la partita, l’evento. Sia Giovanni Raboni sia Carmelo Bene hanno frequentato gli stadi. La prova per Raboni è questa serie di scritti, memorie e poesie raccolte – da Mimesis Edizioni – con un titolo che mostra un rapporto ancestrale con il fùtbol: Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita.

Ci sono meno gradi di separazione di quello che si possa pensare tra un intellettuale e il pallone. Non è volgare parlarne. Anzi, è un modo per raccontare la propria esistenza. Tormenti compresi. L’esempio in Raboni è nei versi, in memoria del fratello, Vivi, Io e Te, Per quanto?. E nel finale che si apre nella vertigine del vuoto dell’assenza che si può misurare anche nel "tempo che ci vuole a un mediano di spinta per raggiungere l’area di rigore". Un istante, appunto, per rendersi conto dell’illusione che si materializza di fronte ai nostri occhi. Non si può tornare indietro. Perché, in fondo, è sempre il tempo che detta legge. Come in una partita di calcio che convenzionalmente dura 90 minuti, ma si può ambire (o sperare) di rimediare (o vincere), confidando nel recupero. Quella zona di tempo, denominata Cesarini, per la quale lo stesso Raboni scrive "Il tiro, maledizione, ribattuto sulla linea nell’ultima convulsa mischia a portiere nettamente fuori casa, fuori causa". L’ultimo confine che separa la gioia dalla disperazione. Nel caso di Raboni è disperazione perché il gol è stato sventato. Ma i fremiti per l’evento vissuto in presenza, che è altro dalla diretta tv (figuriamoci ora in streaming), restano. E passano davanti, in un lungo flashback, tutti i momenti della propria vita.

Raboni, tifoso interista, andava allo stadio con il collega poeta Vittorio Sereni. Non si perdevano nemmeno la partita dei giovani che precedeva quella della prima squadra. Gli odori, le urla dentro lo stadio, non sono riproducibili in televisione. Il pregio di Novantesimo minuto fu quello di portare nelle case degli italiani, quando ancora non esisteva la pay tv, quei frammenti più o meno mistici della partita. Una genuinità nel racconto a parole e con le immagini che trascendeva il mero risultato sportivo. Il linguaggio, sostanzialmente, non era tecnico. La grande rappresentazione di che cosa il calcio fosse per le grandi città del Nord, per la provincia che sgomitava in cerca della salvezza (non umana, ma calcistica) e delle piazze del Sud era davvero neorealista. Ma poi la televisione nel raccontare il calcio ha preso una deviazione – da almeno una quarantina d’anni e che lo stesso Raboni racconta – che è diventata l’affermazione dell’ovvio. Il poeta e traduttore italiano di Proust non si ritrova già – a metà anni Ottanta – con i canali televisivi in cui ex calciatori discettano sulle partite appena concluse, limitandosi a un racconto che non riesce nemmeno minimamente a far rivivere nelle case degli italiani gli odori, i fremiti dello stadio.

Carmelo Bene invece, a quella tv pionieristica che provò a raccontare le partite (e il post partita, anzi il giorno dopo), non si sottrasse. La sua presenza era praticamente quasi fissa alle prime edizioni del Processo del lunedì, in cui capitava che si confrontassero, divisi dalle proprie fedi calcistiche, anche registi come Franco Zeffirelli o Pasquale Squitieri. La visione calcistica di Bene è decisamente più estetica. Emozionale, ma estetica. Così, in quelle simpatie mai nascoste per il Milan, Marco Van Basten, il fragile cigno di Utrecht, che aveva nella caviglia proprio come l’omerico eroe Achille il suo punto debole, era l’estetica che si declina in estasi. E Falcao, l’ottavo re di Roma, per lui doveva essere immune dalle critiche perché era un artista e "l’artista – diceva – è al di sopra di qualsiasi critica".

Sì, era un altro calcio. In cui anche il concetto di sconfitta – proprio in questi giorni se ne è parlato durante le Olimpiadi – aveva qualcosa di romantico. Meritava un racconto che non fosse quello del perdente (e forse frustrato). Lo stesso Raboni idealizzava un’Inter, vista in gioventù e che ancora si faceva chiamare Ambrosiana, che rischiava di retrocedere (non accadde). Ma in cui l’ormai vecchio Meazza era ancora in grado di fare la differenza. Il tempo, ancora. E lo spazio che si ricava anche attraverso un dribbling che per Carmelo Bene era "un’evasione dal corpo (a corpo), un peccato carnale nella volgare monogamia nella marcatura a uomo". E Raboni arrivò addirittura a scrivere un sonetto sul giovane Roberto Baggio che semina con i suoi dribbling i calciatori della Cecoslovacchia ai mondiali italiani del 1990 ("nella stravagante spola da un piede all’altro, nel vivido organizzarsi del brivido fra la tomaia e la suola").

Fino a definirlo imponderabile, perché è proprio l’imponderabile che rendeva allora (e molto meno ora) affascinante il calcio.