"Scusi, lei pensa di lavorare con un artista normale?" Davanti all’impertinenza della domanda, Quincy Jones contrasse il baffo, aggrottò la fronte, per poi spiegare all’incauto interlocutore di aver toccato assieme a Michael Jackson vette che non saranno più raggiunte, facendo cadere i confini culturali che fino ad allora avevano dominato le cose della musica. Di fatto, la conferenza stampa romana in occasione della première europea del Bad Tour di Jacko si risolse in quella risposta. Perché per il più grande arrangiatore della musica americana, scomparso domenica notte nella sua villa di Bel Air, in California, alla veneranda età di 91 anni, c’era dentro tutto. "Prima del trionfo di Don’t stop ‘til you get enough Mtv non trasmetteva video di artisti afroamericani, poi arrivarono Billie Jean, Beat it, Thriller e ci ritrovammo dritti nella stratosfera" raccontava. "Io e Michael creammo un genere imitato da centinaia di videomakers, dando una scossa gli anni Ottanta e ridefinendo per sempre l’industria musicale".
Tutto cominciò coi dieci milioni di copie vendute da Off the wall. "Fummo felici, ma nessuno di noi era pronto a ciò che il destino aveva in serbo per noi". Per forza, visto che Thriller e Bad vendettero la follia di 136 milioni di copie trasformando Bad nel primo album della storia capace di mandare ben cinque singoli al primo posto della classifica americana. La storia del benefit We are the world, scritto nel 1985 dallo stesso Jackson e da Lionel Richie con la produzione di Jones e poi inciso riunendo ben 45 mostri sacri della musica americana nello stesso studio, come documentato pure di recente su Netflix dal film di Bao Nguyenp The Greatest Night in Pop, la conoscono tutti. Ma Quincy Delight Jones, nato a Chicago il 14 marzo 1933, gran parte della sua esistenza l’ha spesa nel jazz, spinto da "un livello criminale di ottimismo", come lo definì nell’autobiografia Q, accanto a colossi come Count Basie, Sarah Vaughan, Betty Carter, Dinah Washington, Gene Krupa, ma anche Tony Bennett, Frank Sinatra, a cui produsse tra gli altri lo strepitoso Sinatra at Sands con l’orchestra di Basie e l’album del come back L.A. is my lady, senza tralasciare il vecchio amico Ray Charles con cui aveva condiviso l’adolescenza.
Perfino Miles Davis, per cui nel ’91, a Montreux, recuperò il repertorio arrangiato per lui da Gil Evans tra il 1949 ed il 1960. Tutto dopo aver capito, ai tempi della militanza nell’orchestra di Lionel Hampton accanto ad un fuoriclasse come Art Farmer, che, come trombettista, non sarebbe mai riuscito ad essere il migliore. Meglio, dunque, le partiture, il cinema (dalla colonna sonora de L’uomo del banco dei pegni a La calda notte dell’ispettore Tibbs, a Il colore viola), oltre naturalmente, ad una discografia monumentale lastricata di album straordinari quali This is how i feel about jazz, The quintessence, Walking space, uno strepitoso live At Budokan o quel The dude che nell’81 gli regalò perfino il popolo della dance grazie all’incursione nel funk di Ai no corrida.
Diversi i progetti umanitari fra cui We are the future, grande concerto per la Fao al Circo Massimo di Roma nel 2004. Tre matrimoni, con Jeri Caldwell, Ulla Andersson, Peggy Lipton, e un paio di relazioni famose, quella con Carol Reynolds e (paparazzatissima) con Nastassja Kinski. Tutte con prole (sette figli in tutto). "Lo conosco dal ’63, quando c’incontrammo a Le Gran Gala du Disc di Scheveningen, in Olanda; lui rappresentava gli Stati Uniti assieme a Sarah Vaughan, io, che avevo appena vinto Sanremo, l’Italia, c’era pure la Dietrich per la Germania la Germania – il racconto di Tony Renis – Diventammo grandi amici e mi produsse, arrangiò e diresse, un brano per bambini: Lettera a Pinocchio. Grande pure in questo. Il momento più alto della sua carriera l’ha toccato probabilmente producendo il disco di Count Basie e Frank Sinatra, mi invitò pure al Sands di Las Vegas ad ascoltarli assieme a lui, ma stavo girando con Mina a Portofino Appuntamento in Riviera e dovetti rinunciare. Non me lo sono mai perdonato. Un giorno mi chiese il significato del termine ‘fico’ e da quel momento l’usò per me. Ero il suo ‘brother fico’".
Nel 2008 a festeggiare i suoi 75 anni all’Auditorium Stravinski di Montreux arrivarono Patti Austin, Mick Hucknall, Al Jarreau, Chaka Khan, Herbie Hancock, James Moody, Paolo Nutini, Toots Thielemans. E nel 2018 per celebrare gli 85 sotto la luna di Umbria Jazz si mobilitarono Ivan Lins, Take 6, Noa, Patti Austin, Paolo Fresu, Dee Dee Bridgewater, Alfredo Rodriguez. Proprio allora, da dio del Walhalla qual era, non ebbe esitazioni a twittare il suo “mi spiace” per aver gettato un po’ di polvere in un’intervista senza rete sui Beatles e Taylor Swift aggiungendo: "Sono un vecchio uomo con le gambe storte che sta ancora imparando dai propri errori". L’umiltà dei monumenti.