Mercoledì 3 Luglio 2024
ROBERTO BRUNELLI
Magazine

‘Purple Rain’ compie 40 anni: come è nata la canzone cult

C’è una storia (commovente e insospettabile) che lega il mito di Prince a Bruce Springsteen

Prince

Prince

Luci color porpora avvolsero il palco, quella sera, tutti riconobbero il primo accordo che Bruce suonò, con delicatezza, sulla sua Telecaster. Brooklyn, Barclays Center, 23 aprile 2016. La canzone era Purple Rain, un brivido scosse la folla: Prince era morto due giorni prima. Tra gli infiniti omaggi al genio di Minneapolis quello di Springsteen fu il più potente, per qualcuno il più inatteso, gli springsteenologi l’hanno piazzata in cima alla classifica delle cover realizzate dal Boss: per l’emozione del momento, per l’assolo di Nils Lofgren, per la potenza di tutta la E Street Band.

C’è un filo rosso profondo a unire Prince e Springsteen ben oltre le apparenze, di cui l’esecuzione di Purple Rain ("l’avevamo provata una volta sola", confessò Little Steven) è solo l’ultima prova. Cominciamo dalla cabala dei numeri: perché Purple Rain, l’album, uscì quarant’anni fa, il 25 giugno 1984, cambiando d’improvviso la storia della musica di quegli anni e di sempre, a meno di venti giorni da un altro disco fondamentale, per l’appunto Born in the Usa di Springsteen. Due lavori diversissimi, ma che hanno in comune il fatto di aver marchiato a fuoco un anno che per il resto al massimo può essere considerato di transizione. È l’anno dorato dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, di The Unforgettable Fire degli U2, di Like a Virgin di Madonna: cercate un filo conduttore, non lo troverete, le avanguardie dei primi eighties ormai erano evaporate.

Di sicuro niente, nel 1984, è come Purple Rain: un’esplosione di rock, funk, psichedelia, elettronica, gospel blasfemo, kitsch fulmicotonico e mille colori così lontani all’iperproduzione sintetica che andava per la maggiore in quello scorcio di secolo. Per molti Prince fu l’epifania inattesa: When Doves Cry, il primo singolo, è un oggetto musicale mai visto prima, l’assolo finale di Let’s Go Crazy è una specie di cascata atomizzata di ultra-blues alla fine di un paradossale sermone avvolto di futuro ("dearly beloved…"), Darling Nikki è un vulcano ipersessualizzato sul punto di esplodere, Baby I’m a Star è figlia illegittima ma sfrontata di James Brown, Prince aveva mischiato nel rock Jimi Hendrix, il funk, il pop e Frank Zappa. Buona parte dell’album è registrata dal vivo: a cominciare dall’infinito assolo finale e dalla voce portata ai limiti estremi, quasi stridenti, Purple Rain era la prova che il rock poteva ancora essere una provocazione. Era, insomma, uno di quei rari dischi in cui ogni singola traccia è un monumento scolpito nel marmo.

Esattamente come Born in the Usa: dalla title track (sì, lo sappiamo, il brano più frainteso della storia, preso per inno patriottico e invece era l’urlo di rabbia della generazione decimata dal Vietnam) alla depressione sotto mentite spoglie di Dancing in the Dark, passando dalla “resa mai” e il senso della propria storia che è No Surrender. Sono i pezzi con i quali il Bruce trentacinquenne incendiò gli stadi, esattamente come faceva Prince, che allora aveva 26 anni: e sono stati di gran lunga i concerti più potenti e più eccitanti di quel 1984 e di molti lustri a venire.

Non sono le decine di milioni di copie vendute (a cui, nel caso di Purple Rain bisogna sommare i 70 milioni incassati dall’omonimo film) a rimanere nella storia, è la forza di quelle canzoni, è la potenza liberatoria (e multietnica) di quei concerti, in aperto contrasto con l’industrializzazione dominante della musica a metà decennio. Lo disse il medesimo Prince, in un’intervista tv, che c’era un legame di sangue tra loro: Springsteen dirige i suoi musicisti come fa James Brown, come faccio io. Il senso era: sul palco siamo Blood Brothers avvolti da pioggia color porpora, la nostra musica è una celebrazione, una messa, un rito catartico. Una rivoluzione.