Sabato 21 Dicembre 2024
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Coca Cola e zuppe in scatola, la Pop Art secondo Sgarbi

Scompare a 89 anni Robert Indiana, autore della scultura-logo "Love" che inneggia all'amore. Come le opere di Warhol e Roy Lichteinstein, un'icona che sfida il tempo

Una scultura della serie "Love" di Robert Indiana

New York, 23 maggio 2018 - L’artista pop Robert Indiana, conosciuto in particolare per la sua serie di sculture “Love” (l’immagine fu creata in origine per una cartolina natalizia per il Museum of Modern Art di New York nel 1964), è morto per insufficienza respiratoria sabato scorso nella sua residenza sull’isola di Vibalhaven, al largo della costa del Maine: aveva 89 anni. Nato a New Castle (nell’Indiana) il 13 settembre 1928 come Robert Clark (il nome d’arte deriva dal suo stato di origine), l’artista è riconosciuto come una delle voci leader della Pop Art: nella stessa foggia Indiana ha modellato anche altre parole-simbolo, come “Hope”, in omaggio all’ex presidente Obama.

«L’accrocchio di Indiana sul tema Giulietta e Romeo diventato un’icona, rimanda all’amore. Amore inteso come emblema della cultura hippy, dei figli dei fiori di quegli anni, razionalizzato dall’artista americano in una parola che ha anche forma. E può stare in un museo come in un prato».  Ecco la traduzione di “Love” secondo Vittorio Sgarbi. Ovvero delle quattro lettere in versione tridimensionale che hanno reso famoso l’artista di New Castle scomparso sabato scorso, universalmente riconosciuto come una delle voci leader della Pop Art insieme a Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann e James Rosenquist. I maggiori protagonisti di una forma espressiva nuova, colorata, versatile, riproducibile. In una parola: popolare. Tanto che se un’intera generazione si è tenuta in camera almeno un poster dei dipinti ad acrilico con effetto “zoom” firmati Lichtenstein, ancora oggi i ritratti di Warhol risultano fra gli screensaver preferiti sui cellulari

 

Ma quali sono gli elementi che hanno decretato il successo della corrente artistica germinata in Inghilterra dalla metà degli anni ’50 ed esplosa negli Stati Uniti dagli anni ’60 in poi?  «La Pop Art è una capacità di corrispondere che si muove con continui riferimenti alla quotidianità – sottolinea Sgarbi – . Un movimento perfetto in un’epoca che ha visto protagonisti prodotti industriali come la Coca Cola o le zuppe in scatola rese immortali da Andy Warhol. Non una rivoluzione, ma l’esigenza di tradurre i valori estetici in valori universali, comprensibili e riconoscibili da tutti». Un fenomeno di massa che piace e viene seguito: «Esattamente come accade per il matrimonio di Harry e Meghan e per i giornali di gossip – sorride il critico d’arte e opinionista – . E anche Trump è un esempio vivente di pop», ironizza. 

 

Tanta popolarità ha un peso, anche economico: secondo la classifica di “Artprice” le opere di Warhol risultano infatti seconde, come fatturato, solo a quelle di Pablo Picasso. «Non si può che avere un giudizio largamente positivo – conclude il critico, confidando di non aver inserito all’interno della collezione Cavallini Sgarbi opere pop – . In un mondo in cui l’arte non ha un valore in sé, ma una valenza transitoria, Warhol e gli altri si sono fatti interpreti dell’esigenza di tradurre i valori estetici in valori universali; a loro spetta il grande merito di aver formulato un’estetica democratica, sebbene frutto della riflessione di un artista aristocratico come Warhol». 

 

Nella società consumistica degli anni ’60 il movimento Pop irrompe e travolge tutte le forme artistiche, letteratura, poesia, teatro, cinema, facendole interagire tra loro come del resto altri movimenti d’avanguardia avevano già fatto (basti ricordare il futurismo Italiano). Rompe con gli schemi tradizionali del fare arte, prende oggetti d’uso quotidiano e li eleva ad icone, simboli di nuovi valori, andando più in là dei ready-made di Duchamp e delle manipolazioni Dada, aggiornando così il linguaggio artistico con nuovi strumenti di lettura e di espressione.

 

Come spiega il critico della Transavanguardia italiana, Achille Bonito Oliva, «la Pop Art è il risultato della società dei consumi americana, impone un linguaggio che dà classicità alla società di massa statunitene, e Warhol è stato il suo Raffaello». «Nel suo genere, è stato un movimento unico – provoca il critico – . Equivale, in termini di paragone, al Rinascimento italiano per gli Stati Uniti d’America, perché è stato un movimento artistico che ha saputo cogliere e raccontare tutti i grandi cambiamenti di quell’epoca, dalla rivoluzione del 1968, passando per la guerra del Vietnam, fino ai moderni sviluppi della celebrità e della società dei consumi».