di Oliviero Toscani
Tutti hanno un’etica; di solito, un’etica cogliona. Ma non sempre. “Dobbiamo far bene le cose e farlo sapere”, diceva Adriano Olivetti. Lui aveva capito che un’azienda è una società, una microsocietà. Ragionare come Olivetti dovrebbe essere obbligatorio. Conciliare l’impegno sociale con il guadagno non è affatto impossibile. Invece, almeno in Italia, in troppi credono che guadagno significhi furto e molte volte lo è. Comunque sia, dato che a quei tempi per me la Benetton era un’aziendina di provincia, dopo il primo incontro con Luciano non ero lì a struggermi e a guardare il telefono aspettando una sua chiamata. Forse mi aveva dato corda solo per sbarazzarsi di me con educazione, poteva essere. E poi una sera, verso le dieci, mentre ero nelle mie scuderie per far nascere una cavalla, mi dissero che c’era Benetton al telefono. Risposi e Luciano mi disse che si era davvero liberato dalle agenzie, come gli avevo chiesto, e quindi potevamo cominciare noi due.
Allora io gli parlai subito di multiculturalità e di colori. La nostra collaborazione è nata cavalla. All’inizio il progetto non si chiamava United Colors of Benetton ma Tutti i Colori del Mondo. In pratica, la globalizzazione nel suo senso più alto, in forma di campagna pubblicitaria.
Integrazione, razzismo, ecologia, aids, condizione umana. Tutto ciò che indignava il mondo della pubblicità. Io creavo reportage in formato pubblicitario. La pubblicità era la scatola. Il contenuto era giornalistico e almeno a volte, credo, artistico. In pratica ho confezionato dei pacchi bomba. Ho teso questo piccolo scherzo al mercato pubblicitario, che da allora è in crisi proprio per la sua miopia. Avevano paura che il mondo cambiasse, e alla fine il mondo è cambiato.
(tratto da ‘Ne ho fatte di tutti i colori - Vita e fortuna di un situazionista’, La Nave di Teseo, 2022)