I quasi sette milioni di spettatori non giustificano "lo spettacolo indignitoso di un Leonardo che manca completamente di verità. E senza verità, non esiste cultura". È lapidario Vittorio Sgarbi. Per il critico e storico dell’arte il debutto da record della serie tv di Raiuno 'Leonardo' con Aidan Turner nei panni del Genio di Vinci, è "solo una vittoria di Pirro".
Cosa c’è che non va, Sgarbi?
"Si parte con uno sbaglio: la serie racconta di un arresto per omicidio di Leonardo, accusato di aver avvelenato Caterina da Cremona. Una cosa mai avvenuta... Forse chi ha scritto la sceneggiatura l’ha confuso con Caravaggio (ride, ndr): inutile quindi parlare di anni di ricerche e studi per realizzare un film cosiddetto biografico, quando si tracima subito nel campo della fiction farsesca".
In un tweet il ministro della Cultura Franceschini scrive che "gli ascolti hanno premiato un’altra volta la scelta di unire storia, bellezza e Italia".
"Sbagliando. Non da un punto di vista commerciale: Leonardo è un personaggio che dà il massimo delle garanzie, ha valori di mercato altissimi; basti pensare all’afflusso alle mostre, al Salvator mundi venduto a 450 milioni di dollari a un principe arabo. Non si tratta di un artista ma di un uomo che come ambizione aveva quella di misurarsi con Dio. Ma la figura di Leonardo ha una solennità fin dalla sua giovinezza che deve essere rispettata: è quella che si legge nel Vasari quando mette nell’angolo Verrocchio dipingendo l’angelo a sinistra nel Battesimo di Cristo, a 16 anni, e si rende conto di essere talmente meno bravo da decidere di cambiare mestiere e fare lo scultore".
Nella serie tv, invece?
"Viene dipinto come un uomo insicuro, uno sfigato pieno di dubbi e turbamenti, mal rappresentato anche nella scena in cui bacia un altro uomo".
Già, cosa ne pensa della polemica sul bacio omosex in prima serata Rai?
"La polemica è fine a se stessa, Ma anche in questo caso il regista non sfugge al bamboleggiamento narrativo, infarcendo il gesto di contenuti non aderenti all’epoca: l’omosessualità nel Quattrocento non era una peculiarità di Leonardo ma un costume abbastanza diffuso, del quale non c’era da fare una bandiera. Rappresentarlo com’è stato fatto è un modo per trasferire la mentalità odierna in cui il genere ha a che fare con i diritti di una comunità, in un’epoca in cui con c’era un problema di diritti ma di scelte di uomini. L’accusa di sodomia fa parte di una condizione di superomismo che moralmente consentiva a Leonardo di fare ciò che voleva. Ma c’è ben altro...".
Ovvero?
"Tutto il film è sbagliato perché i costumi sono sbagliati, il linguaggio è sbagliato (privato di ogni solennità), come anche l’ambientazione storica e il rapporto tra gli spazi. Leonardo spesso cammina in spazi che sono architettati 50 anni dopo di lui, non in ambienti quattrocenteschi, tipo la biblioteca Malatestiana di Cesena o la biblioteca di Beato Angelico a San Marco".
Meglio non avventurarsi in produzioni che prevedano balzi temporali e ricostruzioni storiche, quindi?
"Niente affatto, esistono film in costume ben fatti e di alto valore, ma devono farli registi che hanno una capacità di ricostruzione ambientale come Éric Rohmer o Stanley Kubrick, che ha diretto un capolavoro come Barry Lyndon. Qui non esiste, ci manca solo la plastica. Uno può fare quello che vuole, ma non è che il prodotto si chiama cultura perché è Leonardo. C’è più cultura in Amici miei, dove l’alluvione di Firenze mostra una realtà che in questo film manca".
Rispetto allo sceneggiato televisivo sulla vita di Leonardo interpretato da Philippe Leroy?
"Quello del 1971 di Renato Castellani era molto meglio! C’era poi l’attualizzazione, con la figura di un contemporaneo che dialogava con da Vinci, sicuramente un lavoro più sofisticato. Non ci vuole molto a superare un film indegno per carenze storiche ed errori grossolani".
Come i centurioni che indossavano l’orologio nei vecchi kolossal...
"Esattamente. Ma non si tratta di un problema di genere. La prova sono film in costume come Maria di Scozia diretto da John Ford nel 1936 o i due Elizabeth di Shekhar Kapur del ’98 e del 2007. Questo è il cinema che fa cultura".