Roma, 28 settembre 2020 - Alla "religione del negativo" lui non ha mai rinunciato: "Il dna della fotografia è il negativo, e su questo non ci piove", ribadisce Gianni Berengo Gardin, patriarca italiano della fotografia. Il 10 ottobre compirà 90 anni, e più di 70 li ha trascorsi catturando la realtà nel suo obiettivo, come racconta nella sua ricchissima autobiografia, In parole povere, edita da Contrasto.
Ha girato città e paesi, a Parigi andava al cinema con Jean Paul Sartre (che lo portava a vedere soltanto film western), è entrato nelle fabbriche o nei manicomi e ha ritratto la ‘sua’ Venezia con una poesia inarrivabile, facendo anche la guerra alle grandi navi.
Nella sua carriera ha pubblicato più di 250 libri e neppure lui tiene più il conto delle foto che ha scattato
"In archivio ne ho più di due milioni. Ci sono foto buone, ottime, e foto cattive. Anzi – si schermisce –, di foto buone ce ne sono poche, belle magari tante...".
Maestro, il reportage è sempre stato il suo àmbito. Perché?
"Perché i miei maestri erano, e sono, i fotografi di Life o i fotografi americani della Farm Security Administration, Dorothea Lange, Robert Capa, Henri Cartier Bresson, anche se il mio migliore amico è stato Willy Ronis. Mi ha sempre interessato esplorare le storie e le vite delle persone".
E perché sempre in bianco e nero?
"Quando ho iniziato il cinema era tutto in bianco e nero, e pure la tv lo è stata a lungo. Considero il bianco e nero più efficace per il mio genere di fotografie: inevitabilmente il colore distrae, e spesso si scattano foto a colori più per il colore che per il soggetto".
Ancora le sue foto sono corredate del famoso timbro
“Questa è una vera fotografia“. Occorre sempre ribadirlo?
"Eh, certo, perché io fotografo ancora con pellicola, e quello che io vedo è registrato. Col digitale si è portati più facilmente a ‘taroccare’ le fotografie grazie al computer: levare un palo o aggiungerlo, togliere una barca, o magari eliminare le rughe alle persone".
E quelle non sono più foto?
"Quelle sono immagini, non foto. Un’immagine mi può star bene, purché venga dichiarato espressamente che è stata fatta e ritoccata: altrimenti io mi illudo di vedere quello che ha visto il fotografo, e così non è".
In giro ce ne sono parecchie, di foto di questo genere?
"Anche troppe...".
Ma è vero che lei tiene in camera da letto tutte le sue amatissime Leica?
"Sì, mi hanno dato da mangiare per anni e quindi si è creato con queste macchine fotografiche un rapporto di affetto. Di certo non le butterò mai".
Però lei non ama scattare foto di famiglia...
"Vede, non amo i fotoricordi personali, e in effetti conservo pochissime foto dei miei familiari. Forse perché la fotografia per me è stato un lavoro, non un passatempo. E oggi non sopporto le foto scattate col telefonino: il cellulare serve per comunicare, non per fare foto".
Il digitale è comodo...
"Magari nell’uso professionale, però ci pensi: con il digitale non esisteranno più gli archivi. Cambieranno gli strumenti di lettura dei supporti e già oggi si fatica a leggere i dischi di pochi anni fa. Tutto andrà perduto. Ecco perché resto irriducibilmente legato al negativo".
Il segreto di una foto centrata?
"È... il colpo di culo, la fortuna. Spesso nel reportage la riuscita di una foto non dipende dalla bravura del fotografo, ma di quelli che sono fotografati. Il fotografo ha solo la capacità di fermare quello che Cartier Bresson chiamava l’attimo decisivo".
Spesso lei si è definito un bastian contrario. Lo è ancora?
"Mah, cosa vuole, a 90 anni... Sono più arrendevole, o forse sono stato un po’ addomesticato dalla vita".