Il surrealismo compie cento anni e Parigi spegne le candeline con un’enorme mostra al Centre Pompidou (fino al 13 gennaio 2025, forse la più grande realizzata su tutte le notevoli diramazioni del movimento), a cura di Didier Ottinger e Marie Sarré, ultima esposizione del centro disegnato da Renzo Piano e Richard Rogers, che affronterà una serie di grandi lavori di qualificazione.
Il meccanismo del racconto è quello del labirinto: lo spettatore è accolto da una riproduzione della porta dell’orco nel Parco di Bomarzo. Da lì un corridoio presenta i protagonisti del movimento con le fotografie scattate da una macchinetta, in cui mettono a punto strategie che saranno poi dei punk qualche decennio dopo, tra smorfie e sberleffi, cachinni e risate. Strepitosa la maschera di Yves Tanguy, con i capelli alla Stan Laurel dritti sulla testa.
Il percorso non è cronologico, ma si dipana per temi e figure ricorrenti: al primo posto è la presenza dei medium, ossessione di André Breton, che sul soggetto a lungo indaga, proponendosi come interprete di un’energia di pensiero universale. La scrittura automatica, praticata dai membri del gruppo, intendeva rompere il flusso quotidiano dei pensieri, fornendo una tecnica condivisa a quella folgorazione metafisica che Giorgio De Chirico, ispiratore primo di questo mondo, riteneva esclusiva esperienza individuale. Il sogno è quindi l’ambiente principale, che contiene altri percorsi dell’immaginazione, tra cui la metamorfosi.
Tra i capolavori riconosciuti e notissimi (l’inquietante Ritratto profetico di Guillaume Apollinaire dechirichiano, il terribile Angelo del focolare di Max Ernst), si incidono nella memoria le opere di alcune autrici che da poco hanno guadagnato una attenzione più diffusa, ma che rimangono straordinarie nel loro itinerario.
Sono Leonora Carrington, maestra di visioni dell’estremo (anche in letteratura, tra la crudele autobiografia Giù in fondo e la magnifica distopia Il cornetto acustico), Dora Maar (troppo spesso ricordata per la sua relazione con Pablo Picasso), Ithel Colquhoun, ossessionata da antichi rituali celtici, Dorothea Tanning, quasi un contraltare visivo di Shirley Jackson nell’esplorazione del lato oscuro dei sogni americani e la splendente praghese Toyen, chiamata ribelle del sogno, che esplora gli angoli più oscuri dell’immaginazione.
Notevolissimo è il profilo di Victor Brauner, che si raffigura senza un occhio (come voleva la realtà) in un autoritratto di grande impatto, l’artista rumeno, amato da Peggy Guggenheim che raccolse alcune delle sue opere nella sua collezione; sinistro è l’impatto del suo Loup-table, che rientra esattamente in un’altra sezione importante della mostra dedicata alle metamorfosi, agli incroci tra uomini e animali, tra sogni e cronaca.
Non mancano anche gli elementi della politica e una larga sezione dedicata al Messico, per Breton: "il paese più surrealista del mondo", da cui viene la lezione di domestica inquietudine di Maria Izquierdo, che riesce di caricare di tensioni del non detto e del rimosso anche un autoritratto con i nipotini.