Roma, 14 novembre 2024 – Federico Fellini l’aveva scritto prima di esordire dietro alla macchina da presa, verso la fine degli anni Quaranta, con l’inseparabile amico Tullio Pinelli. L’avrebbe dovuto dirigere un altro regista e quando questi rinunciò, Fellini provò a proporsi ma alla fine non se ne fece nulla. Quel soggetto di un’ottantina circa di pagine, si intitolava Napoli-New York e così si intitola il film di Gabriele Salvatores, dal 21 novembre nelle sale. Carmine e Celestina sono due scugnizzi rispettivamente di 12 e 9 anni, poveri, come la gran parte della gente in quella Napoli del ’49 segnata ancora dalla guerra e dalla miseria. Salgono come clandestini su una nave diretta a New York, in cerca della sorella di Celestina, partita mesi prima, e come tanti altri italiani, nella speranza di un futuro migliore. “È una storia vera raccontata come una favola – spiega Salvatores – oppure, se volete, come una favola molto legata alla realtà”. Con Pierfrancesco Favino nel ruolo del commissario di bordo Garofalo, poi pronto anche ad adottare i due bambini, interpretati dai fantastici Antonio Guerra e Dea Lazzaro, napoletani doc. “Con due bambini milanesi – afferma Salvatores – questo film non l’avrei potuto fare”. E ancora con Anna Ammirati, Omar Benson Miller, Antonio Catania.
Salvatores, come si è arrivati alla scoperta di questo soggetto inedito di Fellini?
“Il ritrovamento di questo gioiellino è un piccolo giallo. È uscito anche un libro, edito da Marsilio, Napoli-New York, curato da Augusto Sainati, professore universitario e critico di cinema, amico di Pinelli. Una sera Sainati è andato a trovare Pinelli per bere un tè insieme. Prima di andare via, Pinelli, già anziano, gli dice: “Mi fai un favore, c’è qui un baule pieno di scartoffie, portalo via, brucia tutto“. Sainati chiede: “Scartoffie di che tipo?“. “Roba che abbiamo scritto io e Federico“. E Sainati: “Lo porto via ma non brucio niente prima di averlo letto“. E così è venuto fuori questo soggetto”.
Che poi è arrivato a lei.
“Ogni volta che ci penso mi commuove l’idea che in questa tribù di noi cinematografari, una storia dimenticata, che rischiava di sparire, viene ripresa per caso e le viene ridata vita. Lo trovo molto bello, anche perché poi sono i nostri maestri. Ho avuto molta paura quando me l’hanno proposto, poi ho scoperto che c’erano delle cose che mi riguardavano e che quindi avrei potuto farlo”.
Ha cambiato qualcosa del soggetto originale?
“Nella prima parte sono stato molto fedele, mentre ho cambiato la parte americana della storia. Del resto Fellini aveva scritto: “In America non ci siamo mai stati e quindi ce la siamo un po’ immaginata“. Nel loro finale c’era troppa fiducia nel sogno americano. In fin dei conti è stato scritto subito dopo la guerra e gli americani ci avevano liberato. Noi abbiamo vissuto gli anni dopo e l’America, che io ho sempre amato per il suo cinema, la musica, la letteratura, non è più quella che adesso vedo. Il sogno americano a volte può diventare anche un incubo, detto con tutto l’affetto che provo per quella nazione”.
Un film con forti richiami all’oggi. Un invito ad essere solidali, ricordando quando erano gli italiani a emigrare?
“C’è un modo di dire napoletano che mi è sempre piaciuto: “Ha da veni’ o pianerottolo, diceva chillo che rucciuliava per le scale“. Ecco, stiamo rucciuliando, rotolando, in questo periodo. Sono scale ripide e anche difficili. Viviamo un momento pieno di diffidenza, di rancore, a volte di odio. Mi piaceva in questo momento fare un film che parlasse anche di solidarietà. Che ci ricordasse che se guardiamo da vicino chi è diverso da noi, se lo conosciamo, poi possiamo anche volergli bene. Questo è un film pianerottolo”.