MALMÖ (Svezia)
Ieri era difficile conciliare la sfrontatezza da hit parade del finlandese Teemu Keisteri, pardon Windows95man, osannato da una Malmö Arena in tumulto per il suo disinibito set vedo non vedo assieme al connazionale Henri Piispanen e la “o” cuoriforme di “Eurovision” trasformata in quella di “Genocide” che campeggiava sullo striscione srotolato per tutto il giorno alla Stazione centrale della terza città svedese da sette attivisti con la keifa tenuti bonariamente sotto controllo da una ventina poliziotti per protestare contro la presenza in gara di Israele.
Ma questa per la più colossale kermesse musicale televisiva al mondo – condotta da Malin Åkerman e Petra Mede – è un’edizione di contrasti, con i paesi nordici irrigiditi su una questione palestinese che ha spinto addirittura Spotify, fiutata l’aria che si respira qui al Nord, a non calcare la mano sulla promozione delle canzoni in gara. Domenica scorsa la rinuncia di Israele al tradizionale Turquise Carpet l’ha detta subito lunga sul clima sotto il pallido sole di una Malmö primaverile a cui neppure le contestazioni, finora confinate più ai media che alle piazze, riescono ad incrinare la placida monotonia con cui s’è trovato a fare i conti pure nelle cose eurovisive per più di mezzo secolo.
Un prezioso volume pubblicato nei giorni scorsi dal giornalista Emanuele Lombardini per raccontare l’aspetto geopolitico dell’Eurovision Song Contest, Unite Unite Europe, ricorda, infatti, che già in occasione del debutto in Lussemburgo del 1973, pochi mesi dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco e pochi prima del bagno di sangue del Kippur, Israele fu costretto a mandare la sua rappresentante Illanit sul palco del Grand Théâtre de Luxembourg col giubbotto antiproiettile, strappando poi, però, con Ey sham un onorevolissimo quarto posto.
Domani sera ad Eden Golan, sangue ucraino e lettone cresciuta in Russia e protagonista di diversi talent show a Mosca, andrà probabilmente meglio. "Bisogna usare l’intelligenza. Ed essere intelligenti non è solo aver ragione" aveva scritto il presidente Herzog sul Time of Israel per indurre l’emittente pubblica israeliana Kan ad accettare le richieste avanzate dall’Ebu per mantenere in gara quella October Rain edulcorandone il testo, giudicato troppo “politico” e legato ai fatti del 7 ottobre, al punto da diventare un’altra canzone, Hurricane. Questo perché l’Eurovision, festival di performance prima ancora che di canzoni, rimane un formidabile volano mediatico pure con ricadute politiche.
Nell’attesa della finalissima di sabato prossimo su RaiUno (Radiodue e Raiplay) con la discesa in campo di Angelina Mango (che, però, offrirà un primo assaggio de La noia già nella seconda semifinale di domani), ieri sera si sono iniziati a delineare i profili delle canzoni in gara, in bilico tra i demoni del sabba inscenato dalla funerea irlandese Bambie Thug, all’anagrafe Bambie Ray Robinson, e da quelli della polacca Luna, e alla santità di quel Teresa & Maria della coppia ucraina formata da Al’ona Al’ona & Jerry Heil, arrivate all’appuntamento con quotazioni altissime così come la nostra Angelina, in scena ieri pomeriggio per un paio di brani tra i fans radunati al Folkets Park nel centralissimo quartiere di Möllevågen. Tra il pubblico pure mamma Laura Valente, un filo commossa.