Lunedì 10 Marzo 2025
SIMONA BALLATORE e FEDERICO MAGNI
Magazine

"Mio padre Mario De Biasi, fotoreporter spericolato"

La figlia Silvia svela la casa-archivio del maestro e lancia l’appello: "Settant’anni di arte e storia, un patrimonio che deve avere un futuro"

Il fotoreporter mentre scatta durante una carica della cavalleria

Il fotoreporter mentre scatta durante una carica della cavalleria

"Mio padre era sempre felice con una macchina fotografica in mano. Inseguiva la luce, albe e tramonti. Non sprecava mai un fotogramma". Entrare nella vecchia casa di Mario De Biasi, a Milano, è un viaggio nella storia della fotografia, prima della rivoluzione digitale, e un viaggio intorno al mondo, tra imprese e umanità. C’è la guerra dello Yom Kippur, il Vietnam, l’incontro a casa di Onassis, lo si vede con Walter Bonatti sotto il Cervino, a Houston con gli astronauti. Ha inquadrato i più grandi come la gente comune, straordinario e quotidianità, affascinato dalla natura. L’archivio è lì: muri di pubblicazioni, di negativi, di stampe e disegni. Viaggi, incontri e amicizie che si incrociano con la storia del mondo: a unire i tasselli e a mettere ordine è stata la figlia Silvia, che custodisce con cura quell’archivio unico. Una vera impresa anche la sua. Lei, biologa, una vita di ricerche in università, ha messo sotto la lente ogni singolo scatto, lo ha classificato e ha digitalizzato quel patrimonio immenso che le stanze non riuscivano più a contenere. "Ho conosciuto veramente mio padre riordinando le sue foto – confessa aprendoci il suo archivio –. A casa non c’era mai: è capitato stesse via per un anno intero, passava da un servizio all’altro, con i mezzi dell’epoca. Io lo continuo a studiare e ogni giorno è una sorpresa".

Quando De Biasi non riuscì più a viaggiare, cominciò a farlo con la fantasia: "Non buttava via nulla, tutto poteva trasformarsi in arte". E quando Silvia e il marito gli proponevano di mettere ordine tra i suoi lavori, non aveva mai tempo: "Ha amato il suo lavoro, ma non gli piaceva guardarsi indietro: aveva sempre nuovi progetti. Vulcanico fino all’ultimo". Se n’è andato nel maggio del 2013, a 90 anni. Per un anno Silvia non è riuscita a entrare nel suo studio, poi ha preso coraggio, ha cominciato a farsi spazio tra torri di libri in ogni angolo e su ogni superficie, opere d’arte e scatole della mitica carta fotografica Ilford. Ha analizzato una fotografia dopo l’altra a caccia di indizi per ricostruire dov’era stata scattata e quando, collegando tutto scientificamente, creando un database per l’“opera omnia“ di De Biasi con la stessa precisione di quando lavorava al microscopio. "Quando dico che non sprecava un fotogramma non scherzo – sottolinea –: ho trovato un negativo del 1954, era in Egitto, assunto da poco: riuscì a intrufolarsi a casa di Nasser per fotografarlo con i figli. Negli ultimi tre scatti dello stesso rullino ci sono anch’io: ero appena nata". Sulle pareti della casa-archivio “memorabilia“, appunti e imprese: si intravede l’essenza dello spericolato Mario, questa volta dall’altra parte dell’obiettivo, mentre cerca di inquadrare una carica di cavalli in Jugoslavia, nel 1958, posizionandosi a un metro scarso dagli zoccoli: "Era sicuro della loro intelligenza", sorride Silvia. Rieccolo in Costa D’Avorio nel 1970, macchina fotografica al collo, mentre attraversa un fiume su un ponte di fortuna, e poi in Israele, nel 1973, con tre macchine fotografiche al collo, appoggiato su un aereo crivellato. E, ancora sul passo del San Bernardino, per la pubblicità di un’automobile, a piedi nudi. Sulla parete di fronte c’è una dedica di Chagall, una di Dino Buzzati, un’altra di Neil Armstrong. "La dedica che più mi ha colpito è quella di Alfonso Gatto – racconta Silvia, leggendola su un libro –. “Al mio amico Mario, forza e forzato dell’obiettivo. Con affetto, il suo compagno di traversata“".

In un telegramma Arnoldo Mondadori lo ringrazia per il servizio sull’eruzione dell’Etna, pubblicato da Epoca nel 1964: "Ho molto apprezzato il Suo spirito di sacrificio e la Sua audacia. Stop. Stia cauto. Stop". Coraggioso, spericolato, "un fisico eccezionale", capace di passare dal freddo della Siberia (quando Bonatti gli salvò un orecchio dal congelamento), al caldo opprimente delle rivoluzioni africane. In un cassetto c’è la sua agendina, con “temi fotografici“ che sviluppava durante i suoi viaggi: A di “alberi con oggetti appesi“, B di biciclette – in ogni luogo ed epoca – e così via, collezionando pure foto di frecce in giro per il mondo. Un archivio unico, da preservare. Che fino a quando è stato in vita Mario era tutto nella sua mente e che ora è nelle mani di Silvia, che lo custodisce con amore e cura, che lo tiene in vita con fotografie che escono da quelle pareti per offrire lo sguardo di Mario De Biasi di mostra in mostra, per poi tornare a casa. "Papà sarà contento: fino a quando ci sono io continuerò a studiarlo e a ripassarlo. Ma questo archivio deve avere un futuro, anche dopo di me – l’appello di Silvia –. Spero continui a essere conservato e consultato. Non possiamo rischiare di perderlo. E non lo dico perché era mio padre. In quest’epoca, dove tutto è smaterializzato, spesso mi chiedo cosa resterà. Qui possiamo ripercorrere una storia lunga 70 anni: non dimentichiamola".