Sabato 6 Luglio 2024
GIOVANNI BOGANI
Magazine

Massimo Ghini: "Dal teatro impegnato ai cinepanettoni, rifarei tutto"

Gli inizi con Zeffirelli, Strehler e Gassman, poi i film comici. "Estromesso dal cinema d’autore, ma io sono coerente"

Massimo Ghini, 65 anni

Massimo Ghini, 65 anni

Roma, 8 marzo 2020 - Lo chiamavano "sparame ‘n petto". "Perché faccio le cose per entusiasmo, le scelgo per istinto e mai per calcolo. Molte volte questo spirito l’ho pagato. Ma non mi pento di nulla, e sono orgoglioso della mia libertà". Sessantacinque anni portati con vibrante energia. Un mestiere d’attore affrontato con inesauribile vitalità. La politica come passione. Una moglie molto amata, Paola, quattro figli amatissimi: "ma come padre non mi do la sufficienza", dice. Troppo teatro, troppo cinema, troppe volte lontano da casa, col rischio di perdersi i loro momenti più belli. Una carriera lunga, che attraversa generi e ’cassetti’ differenti dello spettacolo. Dal teatro al cinema d’autore, dalle fiction ai cinepanettoni: ma il mestiere è lo stesso, si tratta di raccontare una storia nel modo più efficace e vero.

Gli inizi a teatro, con Zeffirelli, Strehler e Gassman. Poi il cinema, fino a diventare un volto chiave di una generazione, quella del cinema italiano degli anni ’90. Ancora, la televisione popolare, per poi prendere il posto di Massimo Boldi al fianco di De Sica nei Natali a Miami, New York, Rio. .. Anche quella di far ridere un pubblico sterminato è un’arte delicata e preziosa. Incontriamo Massimo Ghini alla presentazione del film La volta buona di Vincenzo Marra, che uscirà giovedì.

Uno dei film con cui il cinema cerca di sconfiggere la paura del virus. "Già qualche giorno fa sono uscito con La mia banda suona il pop e abbiamo avuto difficoltà enormi; ora riproviamo con La volta buona . Pensate al coraggio che abbiamo avuto".

Di che cosa parla il film? "Di un procuratore calcistico, un uomo al tramonto, che forse si è giocato tutte le carte; e di un ragazzino uruguaiano che col pallone ci sa fare da dio, ma è pieno di ferite nell’anima. Tutti e due cercano un’occasione, una speranza".

E lei, ha mai avuto la tentazione di mollare? "Una volta. Quando ho capito che da certi gruppi del cinema italiano ‘d’autore’, ‘serio’, ‘intellettuale’ ero stato messo da parte. Eppure avevo iniziato proprio con alcuni di loro. Ma a Ischia, compro le pastarelle per Paola e un pasticciere di Pozzuoli mi dice, rivolto ai suoi garzoni albanesi: ‘uagliò, voi dovete riconoscere in quest’uomo l’enorme coerenza di un grande attore’. Alla parola ‘coerenza’, mi è passata tutta la rabbia, l’angoscia: forse non dovevo ancora smettere".

Quella frase le ha cambiato la vita? "Assolutamente sì. E mi ha anche portato fortuna: appena sbarcato a Ischia, mi ha chiamato De Laurentiis per offrirmi il primo cinepanettone. Sapevo che i critici, da allora, mi avrebbero trattato come Giuliano l’Apostata. Ma sapevo anche che dipendeva da me guadagnarmi l’affetto e la stima del pubblico, e che quella era la sfida vera che volevo giocare".

Al contrario, quali sono state le ’volte buone’, i momenti di svolta della sua carriera? "Gli incontri con Zeffirelli, Strehler, Gassman. Strehler mi ha fatto debuttare; Gassman è stato mio maestro di nome e di fatto, in Accademia; Zeffirelli un maestro difficile, polemico, ‘fiorentino’ nel senso migliore e virulento del termine; ma vibrante, appassionato, innamorato del suo lavoro".

L’incontro cinematografico che ha segnato la sua vita? "Alberto Sordi. Aveva letto sul giornale che, ne La bella vita di Virzì, c’era un attore ‘sordiano’. Oh, e chi è questo? Famm’o conosce!, chiese a Paola Comin, la sua assistente. Poco dopo ero a prendere un caffè da lui. Aveva simpatia per me: e, pur gelosissimo del suo personaggio, mi disse: ‘Massimo, tu mi puoi fa’ pure l’imitazione".

Come definirebbe, con un telegramma, la sua storia? "L’avventura incredibile di un ragazzo di piazza Vittorio che si è ritrovato a fare film in inglese con Joan Plowright, Judi Dench, Maggie Smith e Cher, ma che è rimasto sempre il ragazzo di piazza Vittorio".

Lei ha quattro figli. Qualcuno ha scelto il mondo dello spettacolo? "Purtroppo o per fortuna, tutti e quattro: Leonardo, 22 anni, fa l’accademia teatrale. Camilla, 26 anni, lavora da tempo a Forum con Barbara Palombelli ed è conduttrice radiofonica a Rtl; Margherita, 22 anni, studia moda, e Lorenzo studia organizzazione di eventi".

Recentemente ha detto: «come genitore, non mi darei la sufficienza». Perché? "Ho sempre lavorato molto, e sono stato molto assente. Ho un grande senso di colpa verso la mia figlia più piccola. Appena nata, sono dovuto partire in tournée all’estero per mesi. Chiunque fa un mestiere come il mio, se è un essere umano, ha degli enormi sensi di colpa".

Che cosa è cambiato, dagli anni in cui lei faceva teatro? "I tempi; la fretta. La velocità con cui si crea un divo e con cui lo si dimentica. Oggi si divorano i giovani talenti".

Rimpianti? "Nessuno. Vorrei fare uno spettacolo teatrale, da solo. Un racconto della mia generazione, attraverso quello che ho visto e vissuto. Per il resto, sono felice. Ho sempre avuto un ottimo rapporto col pubblico e un pessimo rapporto col potere: sono sempre stato un cane sciolto, e per questo non ho mai diretto un teatro, non ho mai prodotto un film. Quando l’anno scorso mi hanno candidato al David di Donatello per A casa tutti bene di Muccino, in tanti mi hanno chiamato: ‘A quante candidature sei?’. Beh, era la prima! Un David non l’ho mai vinto, in sessanta interpretazioni, non tutte – forse – da buttare".