Firenze, 14 settembre 2018 - È parcheggiato in piena Ztl nel centro di Firenze il furgone Citroën, ex cellulare della polizia, che Marina Abramović e Ulay acquistarono, due anni dopo essersi conosciuti ad Amsterdam, nel 1975, e con il quale condussero una vita nomade tra una performance e l’altra, viaggiando incessantemente per tre anni in Europa. Quel frammento d’artista è ora esposto nel cortile di Palazzo Strozzi, un’anticipazione della grande retrospettiva che l’omonima Fondazione dedica dal 21 settembre al 20 gennaio 2019 alla grande artista di origine serba.
Oltre 100 le opere in rassegna, tra le quali i lavori più famosi della sua carriera, dagli anni ’60 al Duemila; in programma, anche la riesecuzione dal vivo di sue celebri performance da parte di un gruppo di artisti specificatamente selezionati e formati in occasione della mostra. Video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e rievocazioni delle sue celebrate performance dal vivo da un gruppo di artisti appositamente selezionati e addestrati per lo spettacolo andranno in scena a Palazzo Strozzi grazie alla prima retrospettiva che l’Italia dedica a una delle personalità più celebri e controverse dell’arte contemporanea: titolo, “The Cleaner”.
Il rapporto di a Marina Abramović con il Belpaese inizia nel lontano 1973, a Roma, quando viene invitata a partecipare alla mostra 'Contemporanea', una delle prime ad includere la performance art. Il lavoro creato in quell’occasione, 'Rhythm 10', prendeva spunto da un gioco dei contadini russi e jugoslavi, una rivisitazione della roulette russa: una mano aperta su un tavolo di legno, un coltello affilato nell’altra. Il gioco? Infilzare il coltello negli spazi tra le dita il più velocemente possibile. L’Italia per l’artista serba è anche uno dei luoghi in cui lei e Ulay, suo compagno di vita e di arte dal 1977 al 1988, vivono e creano: il furgoncino Citroën nel quale viaggiano per tre anni attraversando l’Europa, fa bella mostra di sé nel cortile di Palazzo Strozzi. In attesa che decolli la sua personale. Qualcosa che andrà oltre la retrospettiva, un viaggio a tappe, reso ancora più particolare dalla cornice rinascimentale e dal fatto che Marina Abramović sia di fatto la prima donna a cui Palazzo Strozzi dedichi una retrospettiva.
Non poteva mancare un tocco di polemica tricolore legata al manifesto da lei realizzato per la Barcolana (la storica regata velica, nata nel 1969 nella suggestiva cornice del Golfo di Trieste) e l’accusa dei sindacati, secondo la quale sarebbero stati reclutati per l’esposizione fiorentina attori e performer prevedendo compensi poco adeguati e contratti non in regola. Tutto questo non guasta certo il suo rapporto con il nostro Paese: «Il primo, dopo il mio di origine, dove ho messo in scena le mie performance - sottolinea - . L’Italia mi ha dato l’opportunità di iniziare la mia carriera, per me è stato importante e anche inusuale, perché all’epoca non c’erano molte donne che facevano performing art. C’erano donne nell’arte e donne che facevamo le mogli degli artisti, ma nessuna che facesse quello che facevo io. Mi sono sentita molto sola all’inizio. La sorellanza fra artiste ancora non esisteva».
"Il passato non mi interessa - sottolinea poi Marina Abramović riferendosi ai primi lavori, ora in allestimento a Palazzo Strozzi - . L’unico momento in cui decido di rivisitarlo è quando faccio le pulizie, come nei momenti in cui si getta via tutto. Per questo il titolo della rassegna fiorentina è “The Cleaner”. Pulizie... Voglio consegnare al pubblico il meglio, sento una grande responsabilità: il mio è un pubblico giovane. Voglio mostrare loro quanto sia difficile diventare un’artista".
Dall’inizio, a partire dal vecchio cellulare Citroën della polizia esposto a Palazzo Strozzi, con le fiancate in lamiera ondulata e il tetto alto, sul quale l’allora giovanissima artista decise di lasciare Amsterdam e partire con Ulay. "Ci mettemmo in viaggio - racconta in 'Attraversare i muri' - . Saremmo stati un duo artistico ambulante. Non prendemmo molte cose: un materasso, un fornello, uno schedario, una macchina per scrivere, una scatola per i nostri vestiti. Ulay dipinse il furgoncino di nero opaco, conferendogli un aspetto pratico e anche vagamente sinistro. E scrisse un manifesto per la nostra nuova vita sulla strada: Art Vital".
"Una volta alla settimana telefonavamo ad Amsterdam da una cabina, loro aprivano le nostre lettere, ci dicevano dove eravamo stati invitati per una performance, e lì andavamo - prosegue in “Attraversare i muri” - . Certe settimane non ci chiamava nessuno. La nostra vita era così. Eravamo poverissimi. A volte mangiavamo, a volte no".
"Marina non sapeva guidare, al volante c’era sempre Ulay – testimonia James Westcott in 'Quando Marina Abramović morirà' - . Girarono per l’Europa e realizzando performance insieme". Felici e liberi. "Era tutto così bello - scrive Marina Abramović - respiravamo allo stesso ritmo, le giornate che passavano. Tutte cose impagabili".