Roma, 18 marzo 2018 - Manuel Agnelli: dopo l’antologia “Foto di pura gioia” da dove riparte la sua storia?
"Bisognerà vedere. Sto sconquassando un po’ i miei punti di riferimento; e non tanto per mettermi alla prova quanto per togliermi da sicurezze che un po’ mi avevano fatto ammuffire. La morte di mio padre mi ha insegnato due cose fondamentali: bisogna cercare la felicità, perché poi la vita finisce, e bisogna mettersi in gioco, perché, difronte alla morte, tutte le altre preoccupazioni non valgono nulla. Quindi ho una gran voglia di musica, di tv e di eventi".
Un evento è stato “Caravaggio - l’Anima e il Sangue”, il film prodotto da Sky e Magnitudo al quale ha dato voce il leader degli Afterhours, 52 anni compiuti da poco, film che è diventato uno dei "casi" della stagione grazie alla distribuzione in 353 sale di Nexo Digital dove è stato visto in soli tre giorni da 130 mila spettatori imponendo, a grande richiesta, una replica il 27 e 28 marzo.
Che esperienza è stata quella con Michelangelo Merisi?
"Lui era convinto che il talento l’avrebbe giustificato in tutto, pure nelle cose più estreme, mentre io questo non l’ho mai pensato e non ho fatto il fuori di testa pensando che il mio talento compensasse… forse perché non sono un genio come lui. Io ho fatto sempre le mie scelte da persona, da cittadino conscio di appartenere a una comunità, magari marcia, ma pur sempre una comunità".
Dopo aver fatto il giudice a “X Factor”, ora è impegnato su Raitre in una produzione televisiva quale “Ossigeno” che si propone d’indagare sul nuovo che avanza.
"È una trasmissione che pretende di mischiare la musica al sociale, alla politica, perché credo che la cultura sia politica: diffondere le idee, alimentare il pensiero, dare dei punti di vista, suggerire dei filtri, fare opinione. Credo che in questo momento ci sia un enorme bisogno di dare alla gente mezzi per strutturarsi in modo da poter valutare le posizioni con un minimo di cognizione di causa. Per questo davanti alle telecamere provo a far confrontare intellettuali tirandoli fuori dalla loro zona di conforto per spingerli a fare cose diverse dal solito".
In “Ballata Per la mia piccola iena” canta "È ben più doloroso/ se per nemici e amici/ non sei più pericoloso". Si sente ancora "pericoloso"?
"In quel senso no, perché certi concetti appartengono a un’altra età. Mi sento, invece, ancora libero e capace di fare cose che sorprendono innanzitutto me stesso. “Pericoloso” è un’altra cosa".
Cosa l’ha cambiata?
"Non sono cambiato io, sono cambiati i tempi. Certe cose efficaci in un certo tipo di società vengono poi assorbite e un certo tipo di comportamento, di attitudine, diventa normale. Il suono che avevamo trent’anni fa per questo paese era “terroristico”, adesso al massimo rimane ostico. Non fa più paura".
Citazione uno: "Tutti mi domandano cosa vuole il pubblico, ma il pubblico non sa quello che vuole".
"Il pubblico si muove in base agli input che gli trasmettono i media. L’approccio più sano sarebbe capire cosa piace al pubblico e cercare di farlo crescere. Il comunicatore, l’artista, il giornalista, l’intellettuale in genere, è un megafono che si guarda attorno, percepisce quello che sta accadendo e lo comunica. L’industria ha un atteggiamento diverso, impone i suoi prodotti spingendo la gente ad acquistare solo quelli. Pure l’industria della cultura".
L’arte deve, dunque, educare?
"Non sono così di sinistra, l’arte deve informare senza spiegare alla gente cos’è giusto e cos’è sbagliato, ma solo allargare i suoi orizzonti".
Citazione due: "L’ultimo compito che è rimasto ai gruppi rock di oggi, è quello di raccontare cose scomode, perché ormai il rock’n’roll da tempo non è più rivoluzionario".
"Sono d’accordo con me stesso. Più che impeto rivoluzionario il rock oggi è linguaggio e in alcuni casi riesce a descrivere con sincerità, con coraggio, la condizione della gente. Questo non genera cambiamento, ma, almeno, assolve a una funzione; non farti sentire solo".
Se c’è stata la rivoluzione, quand’è finita?
"Gli ultimi segnali, forse, sono arrivati negli anni Novanta. Begin e Arafat che si stringono la mano, il muro di Berlino che cade, Mani Pulite, i movimenti no global, offrirono la percezione che il mondo stesse cambiando. Nella musica c’era il grunge, un suono senza filtri, non commerciale, che conquistava le classifiche mettendo la sincerità al primo posto. Poi questi movimenti in parte sono naufragati e in parte sono stati riassorbiti. Nel 2001 fatti come quelli di Piazza Alimonda a Genova e del World Trade Center a New York hanno rappresentato un “uno-due” niente male per inviare forte e chiaro il messaggio: state a posto e non rompete".
L’indie alternative è diventato per davvero "una chiesa o un partito politico, dove ci sono delle regole ben precise alle quali devi sottostare"?
"Dopi tanti anni c’è una nuova scena, qualcosa sta succedendo. Musicalmente, per me, è assai poco interessante perché, dal punto di vista del messaggio, è quanto di più innocuo ci sia. Per carità, non dico che non debbano esistere, dico solo che quella roba lì non si può chiamare indie perché di indie non ha nulla. Ma è un fenomeno preconfezionato. Quanto al fatto che sia diventato una chiesa, ne sono straconvinto; perché un sacco di contenuti si sono persi nel nome prima di un’estetica e adesso neanche più di quella. Oggi nell’indie sono più regole dentro di quante non ne trovi fuori".
Dice di essere diventato amico di suo padre a 40 anni, quando è nata sua figlia. Perché?
"Prima avevo un rapporto figlio-padre, lui mi sosteneva, ma rimaneva sempre papà. Poi forse, con l’arrivo di Emma, sono cambiato io, sono diventato grande, immedesimandomi in lui, vivendo le stesse cose e capendo fino in fondo quel che aveva fatto per me. Mi sono reso conto che nei confronti della vita eravamo molto più simili di quanto non pensassi".
Sul vostro distacco ha scritto un album, “Folfiri e Folfox”.
"Quando è morto, un mio cugino mi ha ricordato che i gesti servono e che non bisogna star lì a pensare se hanno senso oppure no. Aveva ragione, quel disco mi ha aiutato tantissimo, se non a superare il distacco, almeno a viverlo. Non ho scritto le canzoni di “Folfiri e Folfox” nell’intento di elaborare il lutto, quanto non essere più ostaggio del dolore. Fra i vantaggi dell’arte, infatti, c’è quello di creare conforto".
Come s’è sentito dopo?
"Anche se nella mia turbolenta gioventù avevo incontrato precocemente violenza, morte, non mi si era mai parata davanti una sensazione della fine così precisa. Superi il dolore, ma non la sensazione di vuoto che ti lascia la fine di un mondo. Finito mio padre è come se non avessi più un’ancora, una cima capace di tenermi attraccato al mondo; ora mi trovo solo su questa barchetta in mezzo all’oceano e sono ca**i miei. La fortuna di noi artisti è che possiamo piangerci addosso, sublimare le sensazioni con la musica. E ci pagano pure per questo".