Milano, 3 dicembre 2024 – Piero della Francesca è un pittore grande come Raffaello, più difficile, che, circa alla metà del Quattrocento, indica ciò che tutti conoscono non come sua scoperta ma come sua impronta principale: la prospettiva. Mettere in prospettiva una composizione significa costruire un racconto con personaggi che sono in uno spazio analogo alla realtà.
La pittura antica presupponeva che il fondo delle opere non fosse un paesaggio, non fosse un’architettura, non fosse una prospettiva, ma fosse l’oro. Che cos’è l’oro? L’oro è la luce di Dio. Il fondo oro è la cifra del mondo bizantino, delle icone ad esempio, e, soprattutto, dell’arte italiana del Duecento, del Trecento e del Quattrocento, quando pure la prospettiva inizia a muovere i suoi passi più decisi con Masaccio, Paolo Uccello, Mantegna, Domenico Veneziano.
Ma chi la porta a compimento è Piero della Francesca, nato a Borgo Sansepolcro nel 1412 circa, che deflagra compiendo una rivoluzione assoluta, dipingendo il più bel quadro del Quattrocento, la Pala Montefeltro, oggi a Brera, ma originariamente dipinta per la chiesa di San Bernardino di Urbino, e più precisamente per il mausoleo dei duchi disegnato da Bramante. Napoleone la porterà alla Pinacoteca di Brera come opera imprescindibile nel percorso della grande arte italiana che voleva raccogliere a Milano.
In questa pala lo spazio è più che prospettico: si entra dentro una chiesa, nel presbiterio, si fronteggiano la luce e l’ombra, le luci battono sui marmi come specchi, la conchiglia con un uovo pendente fa sentire l’aria che circola, i volumi, gli spazi. Ci sono i transetti, per cui si può immaginare che sia possibile entrare e uscire liberamente. È, insomma, uno spazio “vero” quello in cui Piero colloca la Madre con suo Figlio.
L’abbiamo definita pala d’altare perché si colloca sull’altare, ma si tratta, tecnicamente, di una Sacra Conversazione, perché i personaggi sono in condizione di parlarsi. Mentre in un polittico sono separati e incomunicanti, qui convivono nello stesso spazio: Battista potrebbe parlare con Bernardino e Girolamo, Francesco con Pietro Martire, e così via.
Francesco, poi, apre con grazia la tunica, mostra le stimmate sul costato e, con una mano di qualità pittorica assoluta, porge in avanti la croce in cristallo di rocca. La Madonna non è più grande degli altri, sta su un piedistallo appena rialzato, ma è un essere umano. È protetta alle spalle da quattro angeli meravigliosi, con ornamenti, rubini, perle. Il bambino sulle sue ginocchia è non soltanto quello che noi sappiamo essere, cioè il Figlio di Dio che lei ha portato in grembo, ma è nella posizione che assumerà, in una sorta di temporalità schiacciata, quando, adulto, sarà sulle ginocchia di sua madre nella posizione della Pietà, come nella Pietà vaticana di Michelangelo. Nel suo sonno, c’è la prolusione, l’anticipazione della sua morte. Questi personaggi sono in una “sacra meditazione” perché ognuno medita, però sono nella condizione di parlarsi, da cui il nome Sacra Conversazione, che fa capire che sono nello stesso spazio.
In quello spazio vuole entrare prepotentemente il duca di Urbino, il quale non c’entra niente, non è stato concepito da Piero della Francesca, infatti è stato dipinto da Pedro Berruguete (Paredes de Nava, 1450 circa-Ávila, 1504) il quale, di fronte alle richieste del duca – d’altra parte era il mausoleo dei duchi –, lo inserisce, con questa corazza abbastanza d’effetto, con le mani rustiche, con il profilo tagliato perché gli mancava un occhio: è una figura realistica, un inserto, come il poeta nel Turco in Italia di Gioachino Rossini. Il dipinto è certamente meraviglioso per le figure, ma questo spazio vuoto è una specie di dimensione concettuale, un pensiero assoluto, pura architettura.
Dobbiamo immaginare Raffaello, a nove, dieci anni, recarsi a San Bernardino, inginocchiarsi davanti a questo capolavoro cogliendo lo spirito assoluto, il pensiero di Piero. Tra l’altro, il fratello del padre di Raffaello, Giovanni Santi, era il priore della chiesa. Vedo Raffaello introdursi nella chiesa, di notte e di giorno, per trovarsi davanti a se stesso trent’anni prima, perché Raffaello tradurrà questo spazio di Piero nello spazio della Scuola di Atene nelle Stanze Vaticane, moltiplicando e ingigantendo l’architettura della Pala Montefeltro.
Raffaello è il pittore che meglio ha compreso il pensiero di Piero, anche rispetto a Perugino, a Signorelli e agli allievi più prossimi dello stesso Piero. In tutto il Quattrocento non c’è un dipinto più importante della Pala Montefeltro, con l’eccezione, forse, della Pala Portuense di Ercole de’ Roberti, creata per la chiesa di Santa Maria in Porto Fuori a Ravenna, e anch’essa, ora, a Brera, capace della stessa idea di spazio, ma ancora più ricca.
© La nave di Teseo