Lunedì 1 Luglio 2024
LEO TURRINI
Magazine

Ancora tu. Vent'anni senza Lucio Battisti

Con lui la canzone italiana sfidava le stelle internazionali

Lucio Battisti in una foto degli anni '70 (Ansa)

Lucio Battisti in una foto degli anni '70 (Ansa)

Meglio dirlo subito: forse sarebbe il caso di lasciar perdere le dispute, vagamente penose, sullo sfruttamento on line del suo repertorio. Sono faccende tra avvocati e mai è stata un mistero la scarsa sintonia, chiamiamola così con un eufemismo, tra la vedova e Mogol, l’autore di testi mandati a memoria da intere generazioni di italiani. No: a vent’anni dalla prematura scomparsa, il 9 settembre 1998, conviene invece celebrare quanto Lucio Battisti ha lasciato alla cultura nazionalpopolare. Perché è stato lui, indiscutibilmente, a portare la canzonetta tricolore su un altro livello. Scappando dalle edere e dalle colombe che volavano, ignorando le mamme che non ti mandavano a prendere il latte, infischiandosene delle lacrime sul viso (che pure erano state declamate in versi dall’eterno Giulio Rapetti, alias Mogol).

  In verità, Battisti Lucio da Poggio Bustone, classe 1943, è stato il primo a sottrarre i contemporanei dal senso di inferiorità nei confronti dei coetanei anglosassoni. Ascoltavi Anna piuttosto che Emozioni e ti rendevi conto che dal suo genio melodico scaturivano gioielli non inferiori alla creatività di Lennon e McCartney, i Beatles. E poi c’era la voce, detestata all’alba della carriera da discografici stolti: così strana e originale da rimandare dritta sparata a Bob Dylan.  Per inciso e senza finzioni: i suoi brani li hanno cantati tutti, da Mina fino al Vasco de passando per Equipe84 (già, 29 settembre!) e Iva Zanicchi. Ma nessuno reggeva il confronto con l’interpretazione dell’autore.

  Ah, Battisti! Autodidatta che si fa insegnare gli accordi dallo scemo del villaggio, laggiù nella provincia reatina. Battisti che studia il pentagramma come un forsennato, perché in quel tempo, nel cuore degli anni Sessanta e anche oltre, ancora si pensava che la preparazione fosse un bonus, mica un optional. Battisti che incrocia il già famoso Mogol e tra i due scoppia una chimica pazzesca: se riascolti Il mio canto libero o La collina dei ciliegi persino dubiti che non sia stata un’unica persona a comporre il tutto (infatti all’estero vissero a lungo nell’equivoco che “Battistimogol” fosse un solo individuo…). Grande nella coltivazione di armonie micidiali (in breve: è banale ma è vero, alzi la mano chi non ha mai gorgheggiato La canzone del sole durante una gita scolastica), il Lucio di Mogol aveva percepito che nell’Italia in dolorosa uscita dalla illusione del boom economico fortissima era la vocazione al privato. 

  Solo che era in anticipo, Ancora tu o Due mondi non c’entravano nulla con le scempiaggini pararivoluzionarie dei figli di papà. Così venne trattato da fascista, lui che in vita sua parlò di politica in pubblico una volta sola, per appoggiare la battaglia di Marco Pannella in favore del divorzio. E sull’equivoco, che contribuì anche ad affrettarne l’addio alle scene, prosperarono critici in grossolana malafede: immaginarne lo stupore quando in un covo delle Brigate Rosse, all’epoca del sequestro Moro, nel 1978, venne rinvenuta l’intera collezione dei suoi dischi (e c’è un documento dei terroristi in cui si citano «le discese ardite e le risalite» del proletariato, pensa te).

Di dischi, Battisti ne ha venduti più di venti milioni. Dal 1968 al 1986 ogni sua incisione conquistava di botto la cima della hit parade. Tanto che lui ne era quasi annoiato. Nell’ultima intervista conosciuta, rilasciata a un collega della Radio Svizzera, confessò candidamente il disagio della Super Star, dicendo più o meno: quando sei sempre il primo, ad un certo punto non sa più cosa inventarti.

  Lui si inventò, nel finale, una seconda carriera, assolutamente non paragonabile alla precedente. Una giornata uggiosa del 1980 chiude la collaborazione fortunatissima con Mogol. La versione ufficiale del distacco parla di banali faccende di diritti d’autore, sullo sfondo però di una saturazione creativa palpabile tra i solchi dell’album dell’addio.  Dopo, Lucio sperimenta, fa un disco elettronico insieme alla moglie, quindi realizza 40 canzoni insieme al paroliere Pasquale Panella. Complessivamente sono 52 pezzi, musicalmente sono piccoli gioielli ma di fatto nessuno li conosce. In pratica Battisti, per scelta volontaria, passò dai fiori ai bulloni. Anche i bulloni che confezionava erano splendidi (A portata di mano e La bellezza riunita sono due capolavori, per capirci) ma non avevano appeal commerciale. E lui lo sapeva e non se ne curava: era sparito dal mondo e ci mancava già. Figuriamoci venti anni dopo.